La città pulsava intorno a lei, un respiro meccanico di clacson e voci soffocate, ma per Elena era solo rumore bianco. Camminava senza una meta precisa, un fantasma tra la folla che le scorreva accanto, indifferente. I lampioni proiettavano cerchi di luce giallastra sull'asfalto bagnato, ma per quanto illuminassero la strada, non riuscivano a scalfire il buio che si portava dentro. Era una luce spenta in un mondo di lampioni accesi.
Il passo di Elena era un macigno a ogni falcata. Non solo per la stanchezza che le si appiccicava addosso dopo una giornata infinita, ma per il peso invisibile che portava dentro di sé, un segreto che le stringeva il fiato. Era incinta. La notizia le era piombata addosso come un fulmine a ciel sereno, scuotendo le fondamenta della sua vita metodica e frenetica. E il padre? Un uomo incontrato per una sola notte, un volto che si era già perso tra i contorni sfocati di una Milano che non dormiva mai.
Giornalista, inviata di punta per una testata nazionale, la sua vita era un susseguirsi di scadenze, aeroporti e notti insonni passate a cacciare la notizia. Un figlio non era contemplato, non adesso, non in quel futuro imminente che lei aveva così meticolosamente pianificato. Il suo ruolo, così esigente e totalizzante, non lasciava spazio a maternità improvvise, a culle e pannolini. L'idea stessa di rallentare, di mettere in pausa la sua carriera in ascesa, le provocava un nodo allo stomaco più forte di qualsiasi nausea mattutina.
Si fermò davanti alla vetrina di una boutique di lusso, il suo riflesso le restituiva l'immagine di una donna smarrita, gli occhi grandi e cerchiati, la bocca tirata in una smorfia di indecisione. Cosa avrebbe dovuto fare?
La domanda le martellava nelle tempie, insistente e senza risposta. Abortire?
L'idea la faceva rabbrividire, ma il pensiero di un bambino che stravolgeva ogni sua certezza la terrorizzava allo stesso modo. E poi c'era il senso di colpa, quella voce sottile che le sussurrava che forse stava fuggendo dalle sue responsabilità.
Accarezzò distrattamente il ventre piatto sotto il cappotto, come a voler sentire quel minuscolo battito che pulsava dentro di lei, silenzioso ma inesorabile. Il freddo della notte le penetrava nelle ossa, ma era un freddo diverso, un brivido che partiva da dentro e non accennava a diminuire. La luce dei lampioni continuava a illuminare le strade del centro, indifferente al suo tormento. Elena si sentiva sola, incredibilmente sola, con un bivio davanti che sembrava non avere una via d'uscita.
Il primo impulso era stato di fuggire. Fuggire dal pensiero, dalla responsabilità, da quel battito minuscolo che già risuonava nel silenzio assordante della sua vita. Ma Elena era una giornalista d'inchiesta, e per indole non fuggiva. Indagava. E ora l'oggetto della sua indagine più complessa era se stessa. Si ritrovò a sfogliare articoli, non più di politica estera o di cronaca nera, ma di maternità. Storie di donne, frammenti di vite che avevano deviato dalla traiettoria prevista, ma che in qualche modo avevano trovato una nuova rotta. Donne che bilanciavano la carriera con il caos di un neonato, che avevano riscritto le regole del gioco. Non cercava risposte pronte, ma solo prospettive, un modo per espandere le pareti della sua prigione mentale.
Poi, l'inchiesta. Una storia di resilienza, di un piccolo borgo che si ribellava a uno sfratto ingiusto. Intervistò madri coraggio, nonni con le mani callose e gli occhi fieri, bambini che giocavano tra le rovine di un futuro incerto. Si immerse in quelle vite semplici e complesse, fatte di sacrifici e di un amore tenace, quasi primitivo. Il suo dramma personale, così urbano e sofisticato, sembrò per un attimo ridimensionarsi di fronte a quella forza bruta. Ma non svaniva, piuttosto si trasformava, acquisiva nuove sfumature. Cominciò a vedere il coraggio non solo nelle grandi battaglie civili, ma anche nelle piccole, quotidiane scelte di vita.
Una sera, nell'aria pesante di fumo di un bar di periferia dove stava raccogliendo testimonianze, incrociò lo sguardo con quello di Isabella. Reporter di lungo corso, capelli grigi e un sorriso stanco ma arguto. Isabella aveva due figli, cresciuti tra redazioni notturne e inviati speciali. Non si scambiarono confidenze profonde, non fu un monologo sul suo dilemma. Ma Isabella, con poche, secche frasi, parlò della fatica, della bellezza inattesa e soprattutto della scelta. "Non c'è una strada giusta, Elena," le disse, accendendosi una sigaretta. "C'è solo la tua. E se è la tua, allora è quella giusta." Non era un consiglio, era un’osservazione, un pezzo di vita buttato lì, senza aspettarsi nulla. Ma per Elena fu come un piccolo faro nella nebbia. Non si sentì più sola. Non completamente.
Tornò nel suo appartamento silenzioso, ma questa volta il silenzio non era vuoto. Era pieno di voci: quelle delle donne che aveva letto, quelle della gente del borgo, e la voce di Isabella. Si sedette alla sua scrivania, non per scrivere un articolo, ma per sé stessa. Prese un foglio bianco. Respirò profondamente. Non c'era ancora una decisione definitiva, non un sì o un no scolpito nella pietra. C'era però la consapevolezza che la paura non sarebbe stata la sua unica guida.
Scrisse una data. Poi un nome. Un nome immaginario, per un futuro ancora incerto. E accanto, una lista di domande, non più sul "cosa fare", ma sul "come fare". Come si organizza una vita con un bambino e una carriera? Come si chiede aiuto? Come si negozia un ruolo, un tempo, uno spazio? La luce dei lampioni filtrava dalle finestre, ma questa volta Elena non era una luce spenta. Era una scintilla che stava per diventare fiamma. Non era un punto di arrivo, ma l'inizio di un'inchiesta su se stessa, la più importante della sua vita.
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