Gentilezza, la versione di noi stessi a cui aspirare




Tanto gentile e tanto onesta pare | la donna mia quand’ella altrui saluta, | ch’ogne lingua deven tremando muta, | e li occhi no l’ardiscon di guardare.

Dante

Quanto ci pare bella, persino sorprendente quando incontriamo la gentilezza. E quanto, allo stesso tempo, da vivere è quasi scomoda, disagevole. Tant’è che il nostro cuore la riserva per lo più a pochi e in precise circostanze.

Forse perché la gentilezza non è nei modi, sebbene siano i modi che possono rivelarne l’esistenza. Forse perché la gentilezza è uno stato d’essere, dell’animo. Non riducibile alla cortesia o al garbo, anche se ne sono una possibile manifestazione.

Si può comunicare in modo garbato, senza essere maleducati, ma non significa che siamo gentili. Vi è persino chi è colto di sorpresa se si sente negata la gentilezza che crede di possedere, confondendola con l’assenza di maleducazione.

L’opposto della gentilezza non è la maleducazione, ma l’indifferenza, la distanza.

Per essere gentili, che è ben diverso dall’avere gentilezza, occorre solidità psicologica, molta. Occorre solidità per saper accogliere le persone prima di giudicarle, per riconoscerle prima di temerle, per vedere lo loro umanità prima di vedere i loro errori. La gentilezza è nella capacità di farsi carico della vulnerabilità degli altri, con un sentimento di vicinanza e partecipazione.

L’animo gentile trova le ragioni di un sorriso benevolo contro quelle dell’ostilità e della distanza. L’animo gentile vede l’invisibile bisogno di solidarietà degli altri, scorge i loro timori, intercetta la loro speranze, comprende le loro debolezza. Occorre dunque alla gentilezza la forza di non sentirsi assediati, la forza di non aver bisogno di difendersi, la forza di non confrontare, giudicare, soppesare. La forza di un amore per sé così grande da averne anche molto per gli altri.

“Quando ti viene data la possibilità di scegliere se avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile”

Wayne W. Dyer

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