L'AMORE PERDUTO DI PERGOLESI




Maria amava Pergolesi di una passione così intensa che, non potendo contrastare la violenza dei fratelli, fece lei stessa da scudo alle tre spade sfilate per ammazzarlo: si dette un altro sposo, più in alto del semplice maestro di cappella, più in alto della sfilza di nobili qualificati che da tempo chiedevano la sua mano: si offrì a Dio, infilo all' anulare il suo anello, indossò il velo bianco, attraversò la navata, in un giorno di nozze e di lutto, chiedendo che fosse Giovan Battista stesso a suonare la sua messa.
La giovane Spinelli ignorava che di lì a pochi mesi il maestro avrebbe suonato ancora per lei, al suo funerale, un canto tragico, per la fine del suo amore . Si dice che la tisi sia il male degli innamorati, non poteva saperlo il giovanissimo compositore di Jesi quando tossiva nella piccola stanzetta di Pozzuoli ospitato da frati francescani. 
Il corpo spossato dal dolore e dalla malattia non fermò la straordinaria intuizione del suo spirito. Compose in fretta, scrisse senza sosta prima di morire, tirando fuori quello che Bellini chiamò il "divino poema del dolore". 
Interpretazione solerte, scultorea e dolente testimonianza musicale di uno dei didatti napoletani più famosi del XVIII secolo, l'immagine della Mater dolorosa prostata davanti alla croce. 
Il giovane compositore si spense a 26 anni, ma la potenza della sua musica invase immediatamente l'Europa. La sua ultima opera divenne celebre, Bach vi adattò il testo tedesco del salmo 51, sconvolto e rapito dall'immagine umana della Vergine Maria. Dolore reale, quello stesso dolore per cui si erano spenti i due amanti, in una Napoli settecentesca che aveva fatto della musica il suo scenario costante, un tappeto sonoro avvolgente, generato dai suoi 5 conservatori e in numerosi orfani destinati alla musica. 
Maria Vergine aveva trafitto irrimediabilmente l'anima di Pergolesi e una Maria madre restava a piangerlo, penetrandosi in quella umanità veicolata da un canto, la cui forza emotiva all'epoca fu considerata "scandalosamente profana". 
Da Parigi rimbalzava in tutta Europa la Serva padrona, rendendo Pergolesi l'unico caso di musicista preromantico che non scompare dopo la morte, dimenticato, ritenuto superato. Rousseau , Diderot e gli altri filosofi sostennero con tenacia che nella tua musica irrompeva qualcosa di inaudito, di sconvolgente: l'intensità che non è più colore retorico, ma struttura della recitazione e della musica stessa. 
Pergolesi introduce il pathos, la compassione alla latina, quella per cui dolori si portano insieme. Lo Stabat Mater questa passione se l'assume dentro: emozione dell'anima e sofferenza subita dalla madre di Dio per la sofferenza di Dio stesso. 
Si racconta che Pergolesi si sia ispirato all'inno trecentesco attribuito a Jacopone da Todi, Donna de paradiso. Lo Stabat Mater è un canto del Sud che ne vomita tutta la visceralità emotiva, richiamando alla memoria la produzione antichissima che da Saffo arriva fino a noi. È lo stesso dolore di madre, che dica "dolcissimo figlio mio, o figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio, figlio a chi m' appiglio? Figlio, pur m'hai lassato". 
La voce torna indietro , avanza , in quel bilico costante che in questa città troneggia: sacra, profana, moderna, antica, greca . . . mentre Demetra libera sgomenta il suo grido per la figlia rapita da Ade.



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