QUESTIONI IRRISOLTE



La questione meridionale tra storia, politica e letteratura.

Non esiste questione più irrisolta, che ci riguardi più da vicino, di quella meridionale. Non solo essa salta spesso fuori nella politica attuale, che ancora non ha saputo gestirla, continuando a commettere gli stessi errori del passato di approccio al problema, ma ha fornito anche materia di riflessione per innumerevoli intellettuali.

La questione meridionale fu un grande problema nazionale che si profilò all’indomani dell'Italia unita. Il regno borbonico annesso al Piemonte con la spedizione dei mille, era davvero vasto e presentava, già al suo interno un’eterogeneità di situazioni di difficile gestione. Voler imporre in questa parte di territorio un sistema statale e burocratico come quello del Piemonte, sic et simpliciter, fu decisione discutibile da parte del governo sabaudo. L'abolizione degli usi e delle terre comuni, le tasse gravanti sulla popolazione, la coscrizione obbligatoria e il regime di occupazione militare con i carabinieri e i bersaglieri, ne sono solo alcuni esempi, che crearono nel sud una situazione di forte malcontento. Da questo malcontento vennero fuori prepotentemente alcuni fenomeni, alcuni già esistenti, altri in una fase embrionale, altri fino ad allora inesistenti: il brigantaggio, la mafia e l'emigrazione al nord Italia o all'estero.

Il brigantaggio fu la risposta violenta alla politica sbagliata del governo sabaudo, che in nome dell’unità nazionale, faceva in primis sempre gli interessi del regno di Sardegna, anche se mutata era l’intitolazione. Dopo l'unità d'Italia vi fu un rigetto nei confronti del governo da parte della povera gente del meridione, che non si sentiva presa in considerazione, per non parlare del generale depauperamento dell’economia dell’ex regno borbonico: intere realtà industriali smembrate e ricostruite al nord, che avrebbero potuto offrire una valida alternativa lavorativa alla popolazione.

Fra il 1861 e il 1865 i briganti imperversavano nelle campagne di Calabria, Puglia, Campania e Basilicata dove bande armate iniziarono vere e proprie azioni di guerriglia nei confronti delle proprietà dei nuovi ricchi. I briganti si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borbone. Fra i briganti, oltre ai braccianti estenuati dalla miseria, c'erano anche ex garibaldini sbandati ed ex soldati borbonici. Non mancavano poi numerose donne audaci e spietate come gli uomini.

I briganti non furono "criminali comuni", come pensava la maggioranza al governo, ma un esercito di ribelli che non conoscevano altra forma di lotta se non quella violenta. Del resto, tenuti per secoli nell'ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e quindi non avrebbero mai potuto agire con mezzi legali. La politica di repressione adottata nei confronti dei briganti fu durissima. Per debellare il fenomeno furono impiegati 120.000 soldati (pari alla metà dell'esercito italiano) comandati dal generale Cialdini. Si scatenò una vera e

propria guerra intestina che portò ad un numero molto elevato di morti in particolare fra i briganti e i contadini che li appoggiavano. Furono deportazioni, fucilazioni e uccisioni varie, le risposte che il nuovo costituitosi regno seppe dare al problema, con la conseguenza di aumentare il divario fra nord e sud, alimentando anche un'esaltazione dei briganti la cui figura venne paragonata, nell'immaginario popolare, a quella di "eroi buoni". Emblematici nella storia rimarranno gli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, in provincia di Benevento; rappresaglie fatte di rastrellamenti, fucilazioni, violenze, incendi, in cui interi paesi erano rasi al suolo, azzerati.

Vi propongo la lettura di un documento storico di indubbio interesse, tratto dal volume Giuseppe Garibaldi, Lettere ad Anita ed altre donne, raccolte da G. E. Curatolo, Formiggini, Roma 1926, pp. 113-116.

Lettera a Donna Adelaide Cairoli.

Caprera, 7 settembre 1868.

Madonna amabilissima, (1)

Se v'è una voce, che possa pesare sulle mie risoluzioni, dessa è veramente la vostra. E se gli oltraggi commessi dal più immorale dei Governi avessero soltanto colpito il mio povero individuo, io m'inchinerei oggi, umiliato, ai vostri piedi, impareggiabile Madre, e vi direi, pentito: «riabilitatemi nell'antica stima». Ma... vedere il sacrifizio di tanti generosi, fra cui preziosissima parte del vostro sangue, risultare a pro' di alcuni traditori e rimanere indifferenti, è troppa debolezza non solo, ma vergogna! E mi vergogno certamente di avere contato, per tanto tempo, nel novero di un'assemblea di uomini destinata in apparenza a fare il bene del paese, ma in realtà condannata a sancire l'ingiustizia, il privilegio e la prostituzione!

Ciò che a Voi dico, avrei potuto, motivando la mia dimissione, pubblicarlo. Ma, come dire all'Italia, ch'io mi vergogno appartenere ad un Parlamento, dove siedono uomini come Benedetto Cairoli? Quindi mi sono semplicemente dimesso da un mandato divenuto ogni giorno più umiliante.

E credete voi, che per ciò io non sia più con essi?

Tale dubbio, tale diffidenza, da parte della donna che più onoro sulla terra, mi furono veramente dolorosi! E benché affralito materialmente, sento nell'anima di voler seguire i campioni della libertà italiana, anche dove possa giungere una portantina. Qui, o Signora, io sento battere colla stessa veemenza il mio cuore, come nel giorno, in cui sul monte del Pianto dei Romani, i vostri eroici figli faceanmi baluardo del loro corpo prezioso contro il piombo borbonico! E quando giunga l'ora, in cui gl'italiani vogliano lavare le loro macchie, se vivo, spero di trovarvi un posto.

Troppo la stupida pazienza di chi li tollerava. E Voi, donna di alti sensi e d'intelligenza squisita, volgete per un momento il vostro pensiero alle popolazioni liberate dai vostri martiri e dai loro eroici compagni. Chiedete ai cari vostri superstiti delle benedizioni, con cui quelle infelici salutavano ed accoglievano i loro liberatori! Ebbene, esse maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all'inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame.

Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell'Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l'Italia e che seminò l'odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato. E se vogliamo conservare un avanzo di fiducia nella gioventù, chiamata a nuove pugne e che può avere bisogno della nostra esperienza, io consiglio ai miei amici di scuotere la polvere del carbone moderato, con cui ci siamo anneriti e non ostinarsi al consorzio dei rettili, striscianti sempre a nuovi tradimenti. E chi sa, che non si ravvedano gli epuloni governativi, lasciati soli a ravvolgersi nella loro miseria?

Comunque, sempre pronto a gettare il mio rotto individuo nell'arena dell'Unità Nazionale, anche se dovessi ancora insudiciarmi, io non cambio oggi la mia determinazione, dolente di non poter servire.

Lunga è la storia delle nefandezze perpetrate dai servi d'una mascherata tirannide, e longanime popolazioni care al mio cuore, perché buone, infelici, maltrattate ed oppresse; dolentissimo di contrariare l'opinione di Voi, che tanto amo ed onoro. Un caro saluto ai figli dal vostro per la vita.

G. Garibaldi.

 (1) Nel settembre del 1868 Garibaldi, disgustato per la condotta del Governo, che nulla faceva per le popolazioni del Mezzogiorno, diede le dimissioni da Deputato al Parlamento. Tali dimissioni provocarono il rammarico di tutti i patrioti e di Donna Adelaide Cairoli, alla quale Garibaldi diresse questa lettera.

Le condizioni economiche e sociali dell'Italia meridionale quindi non migliorarono con l’unità. Anzi, il fenomeno dell'emigrazione si manifestò in maniera consistente a causa delle difficili condizioni di vita nel sud Italia. Il motivo di tale fenomeno era perlopiù occupazionale. La difficoltà di trovare lavoro e di raggiungere un tenore di vita se non dignitoso almeno accettabile, portò ad un'ondata migratoria sia verso il nord Italia sia all'estero. “Si stima che fra il 1876, anno in cui si cominciarono a rilevare ufficialmente i dati, e il 1985 circa 26,5 milioni di persone lasciarono il territorio nazionale". (Fonte: http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/e/e035.htm). Quanto fin qui emerso ci fa comprendere meglio che l'emigrazione fu una delle pesanti conseguenze della mancata risoluzione, da parte dei governi italiani, della questione meridionale.

Furono diversi gli intellettuali (ma anche gli uomini di politica) che analizzarono le cause e denunciarono la questione meridionale. Fra i più importanti troviamo lo storico socialista Gaetano Salvemini (1873-1957). Egli denunciò l'arretratezza del Mezzogiorno se paragonata al decollo economico avviato nel nord soprattutto da Giolitti. Quest'ultimo venne da lui definito "il ministro della malavita" per il cinismo con cui, con l'aiuto della mafia, approfittava dell'arretratezza e dell'ignoranza del sud per raccogliervi consensi. Il 14 marzo 1909 infatti Gaetano Salvemini pubblicò sull'"Avanti" un articolo contro Giovanni Giolitti accusandolo di aver incentivato la corruzione nel Mezzogiorno e di essersi procurato il voto dei deputati meridionali mettendo "nelle elezioni, al loro servizio, la malavita e la questura". Salvemini considerava l'industrializzazione estranea alle condizioni economiche e geografiche del sud e avrebbe voluto invece che si valorizzasse la vocazione agricola del meridione. Egli attaccò inoltre il Psi e la Cgil accusandoli di favorire la classe operaia settentrionale a danno dei contadini meridionali. Chi teneva in quel momento le redini del Paese tuttavia non fu dello stesso avviso e agì a modo suo optando per leggi speciali e per interventi localizzati. Le leggi speciali prevedevano la concessione degli sgravi fiscali alle industrie e l'incremento delle opere pubbliche. Questo portò ad una crescita della spesa statale che andò ad alimentare i ceti improduttivi e parassitari. Tali ceti garantivano voti alla maggioranza al governo e in cambio ricevevano appalti di opere pubbliche insieme ad altri favori.

Un altro intellettuale di spicco, Antonio Gramsci (1891-1937), nel primo dopoguerra ideò una strategia che mirava all'alleanza tra operai del nord e contadini del sud al fine di realizzare una rivoluzione socialista italiana. Nelle sue parole si legge chiaramente la consapevolezza del fatto che il processo risorgimentale si era risolto con un bilancio in rosso (in termini di finanza e di sangue versato) per il Sud. Nei Quaderni, Gramsci illustra lo sforzo profuso tra gli operai torinesi per disinnescare la propaganda socialista di stampo positivista, che mirava a seminare l’idea del Sud “palla al piede” e del meridionale antropologicamente meno dotato. Antonio Gramsci, che certo non si può tacciare di derive separatiste, antiunitarie o filo borboniche, nel suo autorevole e lucido saggio intitolato, appunto, “Sul risorgimento” definisce la spedizione dei Mille una “radunata rivoluzionaria” che fu resa solo possibile per due motivi. Primo: Garibaldi s’innestava nelle forze statali piemontesi. Secondo: le imbarcazioni dello stesso Garibaldi vennero protette dalla flotta inglese che consentì lo sbarco di Marsala e la presa di Palermo, sterilizzando la flotta borbonica. In pratica egli intese delegittimare la “gloriosa” spedizione garibaldina evidenziando che non fu altro che una grande mistificazione storica, nella quale trionfò la logica gattopardiana che tutto avvenne perché nulla cambiasse (Una “rivoluzione-restaurazione”). E ancora: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare chiamandoli briganti”.

In una dimensione più letteraria e meno storico-politica, si collocano personalità come Giovanni Verga (Libertà dalle Novelle rusticane), Tomasi di Lampedusa (Il gattopardo), Carlo Levi (Cristo si è fermato ad Eboli), Ignazio Silone (Fontamara) e Federico De Roberto (I viceré); tanti altri hanno toccato questi temi, e citarli tutti certo non è semplice, quindi questo è solo un elenco simbolico, sicuramente non esaustivo. Opere di sensibile fattura le loro, ricche di immagini e di progetti umani; attese, del resto, che rimarranno molto spesso inevase, come lo sarà la stessa “Questione meridionale”, congruamente analizzata dall’ingegno di questi autori.

II racconto Libertà fa parte della raccolta Novelle Rusticane, scritta da Giovanni Verga, massimo esponente del Verismo italiano, che ben esemplifica lo stile di questo movimento realista sviluppatosi in Italia tra fine Ottocento ed inizio Novecento.

Libertà è un racconto a sfondo storico, che narra di una sanguinosa e furibonda rivolta di contadini contro i possidenti del paese, ispirata alla ribellione del 1860 di Bronte, sedata ferocemente dai garibaldini capeggiati da Nino Bixio.

Il Gattopardo è un romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che narra le trasformazioni avvenute nella vita e nella società in Sicilia durante il Risorgimento, dal momento del trapasso del regime borbonico alla transizione unitaria del Regno d'Italia, seguita alla spedizione dei Mille di Garibaldi. L'autore compie all'interno dell'opera un processo narrativo che è sia storico che attuale. Parlando di eventi passati, Tomasi di Lampedusa parla di eventi del tempo presente, ossia di uno spirito siciliano citato più volte come gattopardesco ("Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi"). Il principe di Salina, uno dei protagonisti del romanzo, durante un colloquio con un emissario del governo sabaudo, spiega ampiamente il suo spirito della sicilianità; egli lo spiega con un misto di cinica realtà e rassegnazione. Spiega che i cambiamenti avvenuti nell'isola più volte nel corso della storia hanno adattato il popolo siciliano ad altri "invasori", senza tuttavia modificare dentro l'essenza e il carattere dei siciliani stessi. Così il presunto miglioramento apportato dal nuovo Regno d'Italia, appare al principe di Salina come un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché ciò che non muta è l'orgoglio del siciliano stesso.

Cristo si è fermato a Eboli è un romanzo autobiografico dello scrittore Carlo Levi scritto tra il dicembre del 1943 e il luglio del 1944. Sotto il regime fascista, negli anni 1935-1936, lo scrittore fu condannato ad un confino a causa della sua attività antifascista e dovette quindi trascorrere un lungo periodo in Basilicata, prima a Grassano e poi ad Aliano, dove ebbe modo di conoscere la realtà di quelle terre. Al ritorno dal confino Levi, dopo aver trascorso un lungo periodo in Francia, scrisse il romanzo nel quale rievoca il periodo trascorso ad Aliano e quello precedente a Grassano. Lo stesso Levi scrive nella sua prefazione "Come in un viaggio al principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli racconta la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Il libro tuttavia non è un diario; fu scritto molti anni dopo l'esperienza diretta da cui trasse origine, quando le impressioni reali non avevano più la prosastica urgenza del documento."

Fontamara è il primo romanzo scritto da Ignazio Silone. Siamo nel 1929. Fontamara è un paesino della Marsica, storica regione abruzzese al confine con il Lazio. Il suo nome è immaginario e richiama quello che accade nel romanzo, ma le tribolazioni che affannano le vite dei suoi abitanti sono esattamente le stesse di chi abitava i monti di L’Aquila negli anni del fascismo. Al tempo stesso Fontamara è l’emblema dell’universo contadino in generale: i cafoni (termine che Silone intendeva come dignitoso) sono tali e quali in Abruzzo come in Puglia o in Sicilia, finanche nell’intero Sud del mondo, e parlano tutti la stessa lingua. Fontamara è lo spaccato di una terra e di un’epoca precisi, ma, come i più grandi romanzi, non smette mai di parlare e di essere attuale sempre.

I Viceré è il romanzo più celebre di Federico De Roberto, ambientato sullo sfondo delle vicende del risorgimento meridionale, qui narrate attraverso la storia di una nobile famiglia catanese, quella degli Uzeda di Francalanza, discendente da antichi Viceré spagnoli della Sicilia ai tempi di Carlo V. Questa “storia di famiglia” si ispira al principio positivistico e naturalistico dell’ereditarietà, con tutte le sue conseguenze. I componenti della famiglia degli Uzeda sono accomunati dalla razza, e dal sangue vecchio e corrotto, anche a causa dei numerosi matrimoni tra consanguinei. Quanto emerge da questa famiglia è una spiccata avidità, una sete di potere, meschinità e odii che i componenti nutrono l’uno per l’altro. Ogni membro della famiglia ha una storia segnata dalla corruzione morale e biologica, che si evidenzia anche nella loro fisionomia e nelle deformità fisiche che l’autore descrive minuziosamente in particolari episodi e dissemina più o meno durante tutta la narrazione. Ma I Viceré, oltre a “una storia di famiglia”, sono anche una rappresentazione dagli accenti forti e disillusi della storia italiana tra il Risorgimento e l’unificazione.

Vorrei chiudere questo breve excursus storico, politico e letterario, proprio con le parole lungimiranti, e ahimè, rimaste inascoltate sia dai politici suoi contemporanei che da quelli successivi, di Gramsci del 1916: “Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese, e non di particolari tendenze politiche o regionali”. Attualmente invece, a 158 anni di distanza, si sente ancora parlare di secessione in diverse regioni italiane; forse una vera integrazione è mancata anche all’interno del nostro stesso paese! Che la nostra Italia sarebbe dovuta nascere federalista, come qualcuno teorizzò?

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