UNA BUONA MANO


Esistono dei passatempi, che alcuni considerano solo semplici giochi, altri invece li concepiscono quasi come un’arte, consciamente o inconsciamente, quasi come la metafora della vita, le cui regole potrebbero ben applicarsi a entrambe le cose.
Sto parlando del gioco, o meglio di tutti i potenziali giochi, con le carte, di qualsiasi denominazione o provenienza esse siano; francesi, napoletane, bergamasche.
Questo tipo di giochi, alcuni non li sopportano e se ne tengono alla larga, altri ancora li ritengono noiosi non traendo da essi alcun diletto o giovamento.
Accanto a questi, chiamiamoli scettici, ci sono quelli che possiamo definire gli irriducibili. A questa categoria appartengono varie tipologie di giocatori.
Possono essere giovani, come i ragazzi che tutte le settimane devono organizzare la serata del pokerino tra amici, che a volte può protrarsi fino a notte fonda, una sorta di appuntamento col destino che periodicamente ci fa un resoconto; oppure possono essere anziani, come i vecchi nei circoletti di quartiere, con un bicchiere di vino in una mano e un ventaglietto di carte nell’altra, o magari con una sigaretta tra le labbra, che ha macchiato irrimediabilmente di giallo nicotina quella parte bianca di chioma dove il fumo va a convergere, a causa dell’abitudine di fumarla tenendola quasi sempre in bocca senza usare le mani, troppo impegnate a tenere e spulciare le carte.
Possono essere signore annoiate, che usano questo passatempo come mezzo di aggregazione e conoscenza, magari perché non hanno altri interessi o perché semplicemente il gioco delle carte trova più proseliti di altre attività che possono sembrare troppo impegnative; queste organizzano veri e propri tornei, rendendo il loro gradito e leggero passatempo una gara con meriti e demeriti, alla stregua di una disciplina sportiva, dove conta bravura e tenacia.
Ci sono anche i disinvolti, quelli che se capita, non disdegnano una partitina, magari in vacanza per ammazzare il tempo in momenti di inerzia o anche per passare una serata in compagnia. Persone che, pur preferendo altri passatempi, come leggere un libro o ascoltare musica, sono anche pronti a diversificare i loro svaghi.
Io credo di appartenere a questa categoria, naturalmente senza mai cadere nell’azzardo, ma giocando solo per puro divertimento o magari per pochi spiccioli.
Una volta, ero in vacanza, precisamente in un campeggio di una località balneare marchigiana, ad un’oretta di macchina da dove attualmente vivo.
Mi lasciai coinvolgere in questi tornei di carte che ogni pomeriggio organizzavano quelli dell’animazione del villaggio. Io partecipavo così, tanto per; per trascorrere del tempo con leggerezza senza troppe pretese, per divertirmi e se possibile per rilassarmi.
Alcuni, in particolare le persone di una certa età, anzianotti insomma, sembrava che arrivassero a quell’appuntamento pomeridiano col coltello tra i denti, quasi come se si stessero accingendo a scendere nell’arena al tempo dei gladiatori.
Quelle partite parevano aver perso la dimensione del gioco per cedere il passo a quella vitale, tale sembrava l’importanza data alla mano di carte.
Quando mi capitava di stare al tavolo dei disinvolti come me, tutto bene, ma quando mi ritrovavo al tavolo con gli irriducibili, veri e propri marpioni dei giochi di carte, dal tre sette allo scopone, passando per la scala quaranta fino al burraco, dove ogni gioco andava condotto con precisione geometrica in un groviglio di regole che sembravano conoscere solo loro, allora sì che erano dolori.
Mi mettevano ansia, la stessa che mi veniva a scuola quando dovevo essere interrogata o sostenere un esame; un pomeriggio, per rendere meno prolungato il mio tedio, feci giocate suicide, per abbandonare alla svelta il tavolo; naturalmente avrei perso lo stesso, allora perché non accelerare il destino e mettere fine a quello strazio.
Io giocavo per rilassarmi, e quella specie di giocatori incalliti non me lo permettevano, da cui il mio ragionamento logico di tirarmi fuori da una partita che di relax non aveva più niente. Il pomeriggio era di nuovo completamente e solo mio.
Così mi misi a fantasticare su quei signori ingrigiti nei capelli, su chi fossero e come passassero le loro giornate il resto dell’anno.
Li immaginai a giocare a carte naturalmente in fumosi circoli, una sorta di seconda casa praticamente dove potersi anche lasciare andare alle imprecazioni più disparate.
-Perché hai lanciato questa, porco…dinci?
-Dovevi prendere il cavallo, ca…volo!
-Ma che testa di c…ocomero c’hai?
E così via…
Immaginai che quello per loro non era solo un semplice ritrovo, ma una setta, con i suoi adepti, un proprio codice, delle regole da seguire e soprattutto un atteggiamento ossequioso nei confronti delle carte da gioco, quasi sacrale.
Per questo chi giocava con meno ponderatezza e attenzione, doveva essere ripreso dai compagni; con il suo comportamento stava interrompendo la loro sacralità.
Pensai che in ognuno di quelle cerchie, ci fosse una figura più carismatica che si elevasse a guida del gruppo, una specie di filosofo delle carte che custodisse arcani segreti e fosse depositario di mirabili tecniche e trucchi speciali.
Così mi ritornò in mente un mio prozio, un fratello di mia nonna, don Antonio, per i più intimi Totonno. Il don, da noi al meridione, non è usato tanto per appellare preti o parroci, per i quali usiamo più volentieri l’apposizione padre al nome o al cognome, proprio per evocare quel ruolo di padre spirituale che è insito nelle figure sacerdotali in genere, ma viene posto prima del nome di persone comuni, per elevare qualcuno al rango di signore rispettabile, appunto don da dominus.
Don Antonio, a cui ricordo io stessa davo del voi, forma arcaica di rispetto nei riguardi delle persone più anziane o più blasonate, ma in questo caso i blasoni non c’entrano, era considerato un vero cultore delle carte, anche se limitatamente a quelle napoletane; non si era voluto aggiornare su altre tipologie di carte da gioco, d’altronde ai suoi tempi non erano neanche di moda.
A casa sua organizzava il tavolo da gioco per gli affezionati parenti o amici, che volessero condividere con lui quei pomeriggi a dilettarsi con quel ludico passatempo.
Ogni tanto tra una mano di carte e l’altra, si prendeva tranquillamento un caffettino, un liquorino, o qualche pastarella, mentre il nostro don Antonio, alias Totonno, elargiva ai presenti le sue perle di saggezza, che in qualche modo avevano sempre qualcosa a che vedere con quel tipo di giochi.
Il gioco delle carte per lui era un eccellente metafora della nostra esistenza, fatta di scelte, casualità e destino.
Ad ogni giro, forse ogni giocatore non deve scegliere quali carte giocare, tenere o scartare? E queste scelte non vanno a stabilire l’andamento della partita?
Le carte poi, non vengono date secondo un ordine ben preciso, destino, ma allo stesso tempo possono anche risentire di qualche imprevisto, caso, magari perché il giro è stato inficiato dalla confusione di un mazziere o dalla distrazione di un giocatore, che ha preso carte che non erano a lui destinate?
Una cosa che veniva spesso detta, specie da chi perdeva, e lo faceva andare su tutte le furie era:
-Vabbè, ma in fin dei conti è solo questione di fortuna.
-E l’abilità dove la mettete? – Rispondeva lestamente.
Sì, perché è vero che c’è un disegno nell’andamento delle carte, ma bisogna pure capirlo quel disegno, altrimenti rischi di sciupare una buona mano.
Del resto, è vero anche il contrario, ossia puoi essere anche un abile giocatore, ma se la fortuna, il caso o il destino, con te non sono stati generosi, concedendoti ben poco, allora sì che hai un problema. Ti resta solo come alternativa quella di bluffare, ma non sempre è praticabile, anzi, a volte è molto rischiosa.
Insomma, con l’ausilio delle carte trovava anche delle risposte plausibili agli interrogativi della vita.
Come quando ci spiegò che quando le carte non arrivano, è inutile accanirsi con una strategia non applicabile, ma bisogna cambiare gioco, con le nuove carte che ti porta la mano, anche rinunciando a belle carte che già si hanno che però non hanno trovato né la loro utilità e né il loro senso, e a volte addirittura ci danneggiano; in questo caso a noi non resta che scartarle. Un’improvvisa inversione o cambio di rotta, può essere un rischio da correre e talvolta rivelarsi una mossa vincente. Altrimenti si rischia di rimanere incastrato, bloccato, senza andare né avanti né dietro, incartato come si suole dire.
Ero bambina a quei tempi e non capivo, ma ora tutto mi è più chiaro, ho messo a fuoco quel che mi appariva sbiadito; spero di giocare bene le mie carte e di avere una buona mano, perché in questo caso ce n’è concessa solo una.
Avanti, fate pure il vostro gioco!

Racconto tratto da "Annotazioni a margine" clicca qui

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