STORIE DI MASSACRI



A cavallo tra il 1893 e il 1894, il Sud, e in particolare la Sicilia, visse un periodo turbolento e drammatico. La violenza del potere si manifestò contro cittadini inermi, rei soltanto di chiedere lavoro e giustizia, e il governo piemontese, non contento di queste stragi, costringeva i giovani siciliani all’arruolamento, dando loro la caccia con ferocia, come a belve.
Nel dicembre del 1893, in un piccolo paese della Sicilia, Giardinelli, in provincia di Palermo, il Fascio (nel 1891 furono denominati Fasci dei Lavoratori le organizzazioni popolari sorte in Sicilia, allo scopo di ottenere la quotizzazione delle terre; le organizzazioni furono represse nel 1894 dal governo Crispi) aveva da tempo chiesto una riduzione delle tasse per la povera gente. Il sindaco, un reazionario, prima promise e poi gravò il popolo di imposte più pesanti.
All’uscita dalla messa, domenica 10 dicembre, nella piazza della chiesa si formò un corteo che al grido di “Abbasso le tasse e il municipio” si avviava verso la casa del sindaco, il quale pensò bene di risolvere la situazione dando ordine ai soldati di sparare.
Le vittime tra i dimostranti furono una ventina; ma a Marineo, un altro comune del Palermitano, durante un’altra dimostrazione di contadini, le guardie spararono sulla folla uccidendo altre dieci persone.
Il giorno 4 gennaio venne proclamato lo stato di assedio in tutta la zona e il generale Morra assunse i poteri di commissario regio; ebbe inizio un altro massacro, quello di Santa Caterina di Villarmosa, comune in provincia di Caltanissetta.
Una folla enorme, circa quattromila persone, si riunì percorrendo le vie del paese; era gente che manifestava pacificamente, senza assalti o devastazioni, ma le autorità, che avevano chiesto ed ottenuto rinforzi da Caltanissetta, avendo avuto sentore della dimostrazione, schierarono strategicamente il totale dei tredici uomini sulla piazza da cui dovevano passare i pacifici dimostranti.
Al corteo ritrovatosi nella piazza venne intimato di sciogliersi con tre squilli di tromba, ma il popolo credendo di non violare alcuna legge protestando pacificamente contro le tasse esose e ingiustificate dello Stato, non immaginando quello che lo attendeva non si mosse. Il terreno fu seminato di morti e di feriti in seguito alle ripetute scariche sparate dai carabinieri; un totale di undici morti e nove feriti, tra cui anche donne, vecchi e bambini, lasciati per ore nella piazza in mezzo a pozze di sangue.
Dopo le stragi, che complessivamente contarono 95 vittime, si procedette a un centinaio di arresti tra i contadini dimostranti.
Il governo, l’ente continuativo che rappresentava l’Italia sotto la dinastia sabauda, fallì anche in quell’occasione, completamente allo scopo in Sicilia e in tutto il Mezzogiorno.
Coloro che avrebbero dovuto essere i restauratori della legge, i promulgatori di libertà, gli educatori nell’alto senso della parola, si alienarono la simpatia e la fiducia delle masse che si videro trattate con disprezzo come appartenenti a razza inferiore e conquistata.
In più, la Sicilia, come del resto tutto il Sud, che da secoli non era stato sottoposto a coscrizione militare obbligatoria, si vide imporre la leva sotto i sabaudi. La comprensibile reazione fu, che molti coscritti non risposero all’appello, dandosi talvolta alla macchia. Per tutta risposta il governo mandò innumerevoli ufficiali a braccarli e stanarli, senza apporre nessun limite ai mezzi della loro missione “civilizzatrice”.

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