FEDERICO II E LA SCUOLA POETICA SICILIANA



Un imperatore tedesco che preferì la Sicilia





Non invidio a Dio il paradiso perché

sono ben soddisfatto di vivere in Sicilia.

(Federico II)



Se penso alla Sicilia, non posso fare a meno di ricordare la sua natura sconfinata, l’incommensurabile bellezza di quella terra dove il mare incontra il cielo in un caldo abbraccio e il suolo crepita forse di tutta quella cultura sommersa e custodita in questa mirabile regione.

Tanta gioia per l’anima è capace di ispirare infiniti e bellissimi versi, e forse è stata questa prerogativa che ne fece il centro, con la sua capitale, di una delle più belle corti della storia; il suo sovrano, una leggenda vivente, come questa regione che rimarrà per sempre leggendaria.

Ovviamente in molti già avranno capito che mi riferisco allo Stupor Mundi: Federico II di Svevia, Federico II Hohenstaufen, o Federico I di Sicilia (Jesi, 26 dicembre 1194 – Fiorentino di Puglia, 13 dicembre 1250), Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1220 al 1250. A quell’uomo venuto dal nord, ma che presto si scaldò al sole del sud e  seppe irradiare la sua opera culturale in ogni dove nel suo regno; una scuola a Capua, un’università laica a Napoli, la prima nel suo genere, castelli straordinari nella sua cara Puglia, primo fra tutti il Castel Del Monte, un trattato sulla falconeria scritto di suo pugno, arte oggi annoverata tra i patrimoni immateriali dell’umanità dell’Unesco, e tanto altro.

Il suo mito parte da una nascita altrettanto mitica e leggendaria, se si vuole anche avvolta dal mistero; sua madre, Costanza di Altavilla (Palermo, 1154 – Palermo, 1198), figlia di Ruggero II di Sicilia (Mileto, 1095 – Palermo, 1154) , fu promessa in sposa a Enrico VI di Svevia (Nimega, 1165 – Messina,  1197), figlio dell’imperatore Federico Barbarossa (Waiblingen, 1122 – Saleph, 1190). Da queste nozze i figli stentavano ad arrivare; quando Costanza seppe di essere incinta si apprestò a raggiungere il consorte in Sicilia, dove aveva conquistato il trono strappandolo a Guglielmo III di Sicilia, ultimo della stirpe degli Altavilla a cui apparteneva la stessa Costanza.

Durante il lungo viaggio, presa dalle doglie, dovettero fermarsi, cercando di scegliere un posto abbastanza strategico e sicuro per la portentosa nascita; diede alla luce a Jesi il futuro Federico II di Svevia. La nascita del figlio di Costanza era importante per la successione del regno di Sicilia, ma fu avvolta da dicerie e illazioni: Federico fu considerato da alcuni detrattori l'Anticristo, che una leggenda medievale sosteneva sarebbe nato da una vecchia monaca: Costanza d'Altavilla, al momento del parto aveva 40 anni, e, prima del matrimonio, si diceva avesse vissuto in un convento. Inoltre, a causa dell'età avanzata, molti non credevano alla gravidanza di Costanza. Per questo motivo sarebbe stato allestito un baldacchino al centro della piazza di Jesi, dove Costanza partorì pubblicamente, al fine di fugare ogni dubbio sulla nascita del futuro imperatore. Così noi oggi possiamo ammirare quella piazza di Jesi, naturalmente ad egli titolata, dove serpeggia tra la pavimentazione, proprio l’iscrizione del maestoso evento avvenuto lì secoli addietro.

Costanza così divenne regina consorte di Sicilia dal 1194 alla scomparsa del marito. Nel 1197 morì a Messina Enrico di Svevia, dopo una malattia contratta durante l'assedio di Castrogiovanni: le circostanze misteriose hanno spesso fatto sorgere dubbi anche su un eventuale avvelenamento ordito dalla stessa moglie. Assunse il ruolo di tutrice di Federico II e reggente del regno, fino a quando a 43 anni morì, lasciando a soli 4 anni il puer apulliae sul trono.

Il suo fu un governo attento, colto e lungimirante, il primo probabilmente che diede vita a quella dicotomia Impero-Papato, non solo sul versante politico, ma anche su quello culturale. Ma più di ogni altra cosa, se penso a Federico II e alla sua bella Sicilia, mi sovviene il ricordo di quella che fu in assoluto la prima sperimentazione lirica in Italia e in un volgare italiano, come non potette fare a meno di ricordare lo stesso sommo poeta, Dante Alighieri (Firenze, 1265 – Ravenna, 1321) nel De vulgari eloquentia (scritto tra il 1303 e il 1304): il movimento letterario che è passato alla storia col nome di Scuola Poetica Siciliana.

A partire dal 1220 circa Federico seppe dar vita nella corte di Palermo a un centro nevralgico dove confluivano poeti e letterati, accomunati da un modello di riferimento sia nei temi che nello stile. Questi intellettuali, per lo più funzionari del regno, provenienti da ogni parte d’Italia e richiamati dal prestigio di Federico, si dilettarono a comporre versi, insieme allo stesso Sovrano, in volgare siciliano, ispirandosi alla lirica provenzale. A Jacopo da Lentini (Lentini, 1210 circa – Lentini, 1260 circa), si attribuisce il merito di aver inventato il sonetto, un tipo di componimento che tutti conosciamo e di cui sappiamo l’enorme fortuna che ebbe nella poesia successiva. Oltre a Jacopo da Lentini, non dobbiamo dimenticare Pier della Vigna (Capua, 1190 circa – Toscana, 1249), strettissimo collaboratore di Federico II, che ebbe anche il merito di dare nuovo impulso allo studio del latino decodificandolo.

La scuola poetica siciliana costituisce il primo esempio di poesia d’arte in Italia. I poeti della scuola siciliana coltivarono la poesia a puro scopo d’arte; un’arte libera e disinteressata espressione del sentimento. Con tale concezione della poesia e con l’uso di un linguaggio letterariamente elaborato, ricercato e raffinato, essi innalzarono la materia e la forma del volgare al livello della tradizione colta.

Il tema fondamentale è l’amore-omaggio, l’amore cioè inteso come devozione, servizio, fedeltà alla donna, analoga a quella del vassallo al suo signore, e quando il poeta le rivolge le parole, lo fa sempre in tono di umiliata sottomissione; questa bellezza della donna da essi cantata è rimasta là, percorre tutte le coste e valica tutti i monti, in quell’esplosione vulcanica che irrompe ancora in tanti versi dei nostri bravi poeti contemporanei, che portano con sé il retaggio di quel grande re di Sicilia.





Amore è uno desi[o] che ven da’ core

 per abondanza di gran piacimento;

 e li occhi in prima genera[n] l’amore

 e lo core li dà nutricamento.



 Ben è alcuna fiata om amatore

 senza vedere so ’namoramento,

 ma quell’amor che stringe con furore

 da la vista de li occhi ha nas[ci]mento:



 ché li occhi rapresenta[n] a lo core

 d’onni cosa che veden bono e rio

 com’è formata natural[e]mente;



 e lo cor, che di zo è concepitore,

 imagina, e [li] piace quel desio:

 e questo amore regna fra la gente.



                                                                 Jacopo da Lentini






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