Oggi sono andata a spulciare nella mia vecchia tesi di laurea; non sarebbe male trarne un saggio, mi sembra che l'argomento sia sempre fortemente dibattuto, anche se è passato un bel po' di tempo. Cosa ne pensate?
La questione: perché escludere l'animale dalla categoria dei soggetti giuridici?
Ci chiediamo come mai l’ordinamento giuridico abbia escluso
dalla categoria dei suoi soggetti, capaci di essere titolari di diritti, esseri
comunque viventi quali gli animali, costruendo l’intero mondo giuridico intorno
alla figura dell’uomo, con i suoi interessi, con le sue esigenze e con i suoi
bisogni. L’animale è stato considerato nel corso dei secoli soltanto come un
interesse o un bisogno dell'uomo, e solo per questo motivo a volte preso
indirettamente in considerazione[1]. Dobbiamo trovare ragioni valide per
confutare questo stato di fatto che frustra la posizione dell’animale nella
realtà giuridica. Con troppa superficialità, fino a non
molto tempo fa, e forse ancora
adesso, l' intero ambiente filosofico-giuridico escludeva senza mezzi termini
che l' animale potesse essere considerato come soggetto di diritto[2]. In
molti, infatti, hanno notato, dopo analisi più attente sulla vita degli
animali, che, non si tratta di una forma vuota e priva di qualsivoglia
interiorità, ma al contrario, di un essere vivente capace di provare sentimenti
diversi, dotato di un' intima essenza[3]. Da
una profonda riflessione, sul fatto che gli animali siano dotati di una propria
psiche capaci di sensazioni, potremo dire, e in molti lo fanno, che ci troviamo
di fronte a un’entità così vicina alla natura dell’uomo, che l’unico discrimine
potrebbe rinvenirsi in quella "superiore" capacità di raziocinio. La
natura di entrambi, dell' uomo e dell' animale, sarebbe la stessa; la
differenza sarebbe soltanto di
grado [4]. Schopenhaeuer,
ponendosi contro il primato incondizionato dell' uomo fra tutti i viventi di
ispirazione giudaico-cristiana, riconosceva che nell' animale e nell' uomo il
fondo essenziale e principale fosse identico e
“che ciò che li distingue non consiste nell' elemento originario ma
soltanto nell' elemento secondario, nell' intelletto e poiché ciò dipende
soltanto da un maggiore sviluppo cerebrale, si tratta di una differenza somatica
limitata a un singolo organo, al cervello, cioè a una differenza quantitativa.
Secondo i moderni animalisti, che hanno recepito in parte queste idee, l'
animale sarebbe sottoposto a una continua discriminazione da parte dell' uomo,
scaturita dall' idea di supremazia della
specie umana su tutte le altre, che l' uomo ha ricavato “ massimizzando il
valore di ciò che sembrerebbe distinguerli dagli altri animali (l' uso della
ragione) e minimizzando al contrario il «valore vita» che è invece di fatto comune
a tutte le forme viventi.[5] Visto
che gli animali sono esseri dotati di propri sensi, capaci di provare dolore e
piacere, proprio come noi, non si capisce il perché di questa situazione, che lascia
l' animale in balia dell' uomo, il quale finisce inevitabilmente per farne
l'oggetto dei suoi bisogni, quando esso ne avrebbe di suoi. Anche quando l’uomo stesso conferisce tutela e
protezione all'animale, lo fa per un senso di umanità verso se stesso più che
verso la bestia. Quello che protegge
alla fine è il suo sentimento che viene offeso ad esempio come accade nel caso
del reato di maltrattamenti sugli animali. Anche se la situazione sta mutando, alla
luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali e legislativi, bisogna
constatare come “il discorso sugli animali continui ad avere il proprio
baricentro in un discorso sull' uomo”. Dall' antropocentrismo - l’accusa più
grave degli animalisti - sembra che non sia proprio possibile liberarsi,
nemmeno proponendo nuove etiche con un esplicito carattere anziché
antropocentrico biocentrico.” Sarà
difficile riuscire ad attribuire all' animale una posizione paritaria alla
nostra; riuscire a permettergli di essere titolare di diritti e situazioni
giuridiche, non perché l’uomo gliene fa gentile concessione, ma perché in essi
intrinsecamente già presenti. L’animale, non solo potrebbe meritare la
qualifica di soggetto di diritto in virtù della sua essenza vitale, ma anche in
funzione dell’”attività" che esso svolge nel nostro ordinamento giuridico.
È innegabile come l’uomo sfrutti l’apporto collaborativo e la capacità
lavorativa degli animali in svariati modi, intervenendo nei rapporti economici dell’uomo
stesso come un’utilitas. Il diritto
soggettivo dell’animale potrebbe sorgere proprio in quel momento. Se partiamo
dalla nostra convinzione di avere dei doveri nei confronti degli animali,
peraltro generalmente condivisa, potremo arrivare a dimostrare la tesi meno
generalmente accettata che gli animali, al pari degli esseri umani, abbiano
certi diritti. Kant sostiene che i nostri doveri relativi agli animali sono
fondati sulla considerazione dei nostri doveri verso gli uomini; quindi per il
filosofo il desiderio di essere crudeli con gli animali fa trasparire nelle
persone una mancanza di umanità. E se oltre a questo senso di umanità, di cui
parla Kant, in noi scattasse anche una percezione dei loro sentimenti? Vorrebbe dire che in quel momento noi
considereremmo gli animali come nostri simili, attribuendogli il più
fondamentale dei diritti: il diritto di non soffrire.[6] [7]
[1]La tesi più forte dell'antropocentrismo classico è
quella che si trova nelle opere di Aristotele, ed in particolare nella Politica. In questa opera viene eretta
una barriera insanabile tra uomo e mondo animale: «Gli animali sono fatti per
l'uomo perché se ne nutra e se ne serva per i suoi bisogni.» Gli animali
vengono dunque relegati in posizione assolutamente subordinata all'uomo, nella
sfera degli strumenti di cui egli può disporre a suo piacimento; anzi,
Aristotele aggiunge, non può esservi alcun legame di amicizia o giuridico tra
uomo e animali.
[2] Infatti, anche se analizziamo le correnti di pensiero
che già nell'epoca classica si contrapponevano ad una visione angustamente
antropocentrica del mondo, come quella che ritroviamo nella cosmologia non
teleologica ma meccanicistica di Epicuro, o nel De rerum natura di Lucrezio, profondamente rispettoso delle diverse
esigenze di tutti i viventi, non pare mai essere stata rigettata l'affermazione
del primato umano sugli animali.
[3] Ci riferiamo in particolare al pensiero di Piero
Martinetti, che, da sempre animato da profondo amore e rispetto nei confronti
della vita animale, e trovando ispirazione nelle idee di Schopenhaeuer,
rivendica per l'animale sia un intelletto che una coscienza, e per questa ragione
che la sua sofferenza deve suscitare nell'uomo una profonda pietà:«non soltanto
l'attività, ma gli stessi atteggiamenti, i gesti, la fisionomia tradiscono l'
espressione di una vita interiore: una vita forse estremamente diversa e
lontana dalla nostra, ma in ogni modo ha anch'essa il carattere della coscienza
e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico.» Potremmo anche
citare il contributo offerto dalle riflessioni sul vegetarismo di autori
classici come Pitagora, Porfirio e Plutarco, fino ad arrivare alle
considerazioni di Rousseau circa la necessità di un ritorno dell'uomo alla
natura e alla riconquista della perduta innocenza.
[4] Questa è una delle idee che maggiormente hanno
caratterizzato il saggio di Cesare Goretti nel quale non solo egli rivendica la
soggettività giuridica dell' animale, ma ne fa anche il portatore di una
propria coscienza giuridica: « Se noi pensiamo che esiste una psicologia
animale, che questo è un essere vivente capace di soffrire e di connettere per
lo meno la causa all' effetto, dotato di una natura che non può essere che per
grado diversa dalla nostra e non per essenza; è evidente che tanto il senso
morale, quanto la ragione ripugnano a considerare l’animale come un oggetto
qualsiasi, come una res della realtà
esteriore.»
[5]Il termine specismo,
è stato coniato da Richard Ryder nel
1972 proprio per indicare la sacralizzazione della specie umana, la radice
secolare di una biasimevole prevaricazione dell’uomo nei confronti della specie
animale.
[6] « Ma se decidessimo non solo di dover trattare
umanamente gli animali, ma anche di dover agire così per il loro stesso interesse, se cioè decidessimo che tale trattamento è
qualcosa di dovuto di cui noi siamo
debitori verso di loro, qualcosa che può essere reclamato per loro conto, qualcosa il cui rifiuto sarebbe un' ingiustizia e un male e non solamente un motivo di fastidio, allora risulterebbe che
noi attribuiamo diritti agli animali.» In questo modo si esprime J.FEINBERG nel
suo saggio " Gli animali possono avere diritti? ".
[7] Sul punto interessante riflessione è quella di T.
Regan,nel suo saggio, " L'esigenza di una riforma" : « Essi non fanno
parte delle generose sistemazioni approntateci da una divinità benevola o da
una natura infinitamente previdente. Essi hanno una esistenza e un valore
propri.Una morale che non incorpori questa verità è vuota. Un sistema giuridico
che la escluda è cieco.»
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