AVEVO SOLO LE MIE TASCHE- LA PECORA NERA



Un misto di commozione e rabbia mi ha pervaso quando sabato pomeriggio ho avuto la fortuna e il privilegio di intervistare a Radio Senza Muri, Alberto Paolini, una grande anima, condannata da un destino crudele e iniquo a una vita di recluso, circondato da indifferenza, superficialità e ipocrisia. Sì, perché ascoltare il racconto della sua vita, da lui stesso in una maniera lucidissima e impeccabile in barba ai suoi 86 anni, è come fare un viaggio nei peggiori incubi dove i protagonisti sono tutti i vizi e difetti del genere umano, o dovrei dire disumano.



Alberto, che è nato nel ’32, ha iniziato col raccontarmi della sua infanzia; una premessa triste a una vita dolorosa. Aveva una mamma cattiva Alberto, che spesso lo rinchiudeva, quasi a profetizzare il destino infame che lo avrebbe di lì a poco travolto: «Era molto cattiva e mi diceva sempre che non mi voleva e mi lasciava solo chiuso in casa, per molte ore». Un inizio fatto di maltrattamenti che non poteva che peggiorare: «Papà è morto che io avevo 5 anni e mia madre, rimasta sola, non poteva più tirare avanti la famiglia e allora ha messo sia me sia mia sorella in collegi differenti». Una famiglia già povera, che per di più perdeva il suo unico sostegno, a quei tempi non andava tanto per il sottile, considerando i figli delle zavorre di cui liberarsi, considerando anche il fatto che dalla voce di Alberto comprendiamo che sua madre non era di certo una figura amorevole. Nel suo racconto parla male anche di quegli anni vissuti in collegio, dove suore impietose maltrattavano tutti i ragazzini; per me non è una novità, avendo ascoltato anche le storie di mia madre, anch’essa rinchiusa in un orfanotrofio gestito da religiose fino a dodici anni. Quello che davvero mi disarma è che nella voce di Alberto non traspare attualmente mai risentimento o rancore, solo pacatezza forse per una pace finalmente ritrovata. Sembrava che mentre raccontava, ribollisse il sangue nelle vene più a me che a lui. Quando aveva 11 anni, morì anche sua madre, e nel mentre lui traslocava dalle suore per andare in un istituto dei salesiani; nel cambio non ci guadagnò, sempre la stessa minestra che può indurre a buttarsi dalla finestra. Alberto, sano, ma orfano e povero non lo fece, perché forse la speranza non lo ha mai abbandonato, e oggi è presente più che mai nelle sue parole. Racconta dei religiosi severi all’eccesso, del bullismo tra i compagni. È taciturno, il maestro lo definisce «un po’ strano». Un giorno arrivò in orfanotrofio una signora che non voleva un orfano qualsiasi: voleva uno che non avesse proprio nessun parente. “Era una ricca svizzera, sposata con un signore di Roma il quale, durante la guerra, aveva fatto i soldi grazie ai militari stranieri che andavano a bere nel suo locale, vicino piazza di Spagna”, ricorda Alberto.  “E cosi le presentarono proprio me, che ero forse l’unico a non avere proprio nessuno al mondo”, mi racconta sempre con voce lenta e pacata. Furono brevi i suoi giorni nella casa dei suoi nuovi genitori: “Pensavo che mi avesse preso per volermi bene, invece scoprii col tempo che lei, la moglie, lo aveva fatto per un solo motivo: voto alla Madonna. Aveva promesso che, in cambio di una grazia, si sarebbe portata a casa un orfano”. Un raggio di sole si trasformò in un’ennesima illusione. “Non è abbastanza vivace”, ricorda Alberto le parole della donna che presto si era stancata e voleva liberarsi di lui, e prosegue il suo racconto: “La signora sosteneva che io ero meno vivace di quel che, secondo lei, doveva essere un bambino della mia età. E cosi mi portò dal dottor De Santis, neuropsichiatra, che mi diede solo una cura: quella di uscire di casa, di frequentare altri bambini”. Il medico le spiegò che, dopo tanti anni di orfanotrofio, era normale che Alberto non sprizzasse gioia da tutti i pori. “Le disse che avevo solo bisogno di uscire all’aria aperta, quanto meno di vedere Roma, per esempio, dato che non avevo mai visto niente”. E invece non andò così. La signora, per sbarazzarsene, visto che Alberto non corrispondeva alla sua idea di fanciullo, ma forse erano soltanto scuse, e dato che il suo voto era stato assolto secondo la sua coscienza, in mancanza di un collegio che lo riprendesse per un super affollamento, lo portò prima all’ospedale Neuropsichiatrico della Sapienza, dove seppe che ricoveravano anche ragazzetti come lui, e poi da lì finì al Santa Maria della Pietà, il grande ex “manicomio” di Roma.

Lo rapano a zero, lo vestono con un camicione. Il medico gli chiede se «sente delle voci». Alberto non capisce bene: «Sì, forse qualche volta». Poi comprende l’equivoco e ritratta. Sulla cartella clinica scrivono «stato depressivo». E la cura per quasi tutto, lì dentro, è l’elettrochoc. Alberto è angosciato, ne ha già verificati gli effetti sul suo coetaneo Claudio: «L’ho visto inarcarsi di colpo e sobbalzare in alto», «contrazioni violente», «un forte rantolo e molta bava».

È il suo turno: a forza viene disteso sul letto: «Mi sono messo a piangere e a invocare la mamma». Gli premono gli elettrodi sulle tempie: «Ho perduto immediatamente la coscienza». Il risveglio è terribile: «La testa in una fitta nebbia, mi era capitato qualcosa di terribile ma non lo ricordavo, i nervi tesi allo spasimo, le gambe che si piegavano, tutto ondeggiava».  

Questi sono stati i terribili 42 anni in manicomio di Alberto, colpevole solo di essere orfano e povero; finito quindicenne al Santa Maria della Pietà di Roma, vi rimase dal 1948 al 1990, quando è stato trasferito in una casa famiglia. Un’esperienza la sua che farebbe impazzire una persona sana, ma che invece Alberto è riuscito ad attraversare conservando lucidità ed equilibrio. Tanto da spingerlo a scrivere la sua autobiografia: Avevo solo le mie tasche, sottotitolo Manoscritti dal manicomio, edito da 'Sensibili alle foglie'.


 Il volume nasce tra le mura del manicomio, dove Alberto a 30 anni comincia a scrivere un diario, poesie, racconti. I degenti non hanno nemmeno un armadio: «Avevo solo le mie tasche», spiega, «per poter tenere gli scritti». Su pezzi di carta, scatole di grissini, biglietti. «Così scrivevo in piccolo e il più conciso possibile, in modo che lo scritto non occupasse molto spazio nelle tasche». In manicomio senza diagnosi.

Come è possibile, da sani, finire per 42 anni in manicomio? Paolini trova la risposta nella storia, sua e della collettività: “Ero un bambino senza nessuno nel momento in cui Roma si stava organizzando per il Giubileo del 1950. Era un evento importante per la riconciliazione dopo la guerra. E quindi dovevano liberare le strade da bambini orfani, come me, dai mendicanti, dai poveracci che c'erano in giro, che avrebbero fatto fare brutta figura alla capitale. I collegi erano ormai tutti pieni e quindi molti furono messi nei manicomi”.

Paolini ringrazia il movimento studentesco del ’68 e tutte le lotte politiche successive che hanno portato alla legge Basaglia, che mise fine alla sua permanenza in manicomio e lo ha portato a vivere in una casa famiglia dove la sua vita viene di nuovo messa in discussione perché deve abituarsi a fare cose che al Santa Maria della Pietà erano svolte dal personale dell’ospedale; come fare la spesa, cucinare, convivere con un gruppo ristretto di persone. Ma Alberto riuscirà ad affrontare con lucidità anche questo.

Alberto mi ha recitato a memoria una sua struggente poesia, che chiude il film “La pecora nera”, nel quale Alberto è stato voluto per un piccolo ruolo.


Il film del 2010, scritto, diretto e interpretato da Ascanio Celestini, ha tra gli altri interpreti, Giorgio Tirabassi e Maya Sansa. Questa in poche parole la trama del film, che sembra in qualche modo riprendere la triste storia di Alberto: Nicola è un ragazzo difficile, una pecora nera, con molti problemi a scuola e nella vita, dovuti al difficile ambiente familiare in cui è cresciuto: un padre severo, una madre con problemi psichiatrici chiusa in manicomio e una nonna contadina. Nicola verrà presto considerato come pazzo e, nella sua solitudine, non gli resta che crearsi un amico immaginario. Ha 35 anni e vive rinchiuso in un ospedale psichiatrico; al supermercato c'è Marinella, il suo amore infantile che offre caffè in cialde a clienti svogliati e ride ascoltando le sue cronache marziane. Nicola è un "povero scemo", che mangia ragni e beve l'acqua di mare, che crede ai santi ma non in Dio, che distribuisce pasticche e torna sempre indietro al novantanovesimo cancello perché è stanco, perché il mondo fuori è come dentro, soltanto più ordinato. Nicola è la pecora nera, il diverso che diventa poesia da declamare, storia da raccontare, canzone da cantare. La pecora nera, già realizzato per il palcoscenico e già pubblicato nella forma del libro, non compie un'indagine sulla situazione della salute mentale in Italia, piuttosto parte da un'indagine condotta negli ospedali psichiatrici per approdare a un film lirico su una biografia disgraziata e un'emarginazione inespressa. Sensibile e in ascolto degli umori della natura umana (e sociale), l'autore e attore romano svolge il racconto del suo "scemo di guerra" in tempo di pace sul volto innocente del suo personaggio, specchio di pensieri poveri e puri ma vertiginosamente profondi. Nicola è nato nei "favolosi anni Sessanta", quelli che avevano il sapore del sale ed erano ancora troppo lontani dalla riforma di Franco Basaglia, psichiatra illuminato che promosse la progressiva eliminazione del sistema manicomiale e il reinserimento nel corpo della società dei pazienti con disturbi mentali. Nicola è uno dei tanti, troppi bambini che ha visto confluire il suo disagio in un istituto religioso per persone definite "subnormali", un luogo dove ha comunque continuato a sognare, incapace di entrare in rapporto attivo col mondo al di là del muro, inesplicabile e terrorizzante orizzonte di non-senso accomodato ordinatamente lungo le corsie di un supermercato.

Se non lo avete visto segnatelo pure tra le pellicole da ricercare e vedere, e pensate ad Alberto Paolini, testimonianza vivente di una di queste storie di cui narra il film, che si sono consumate in questa realtà, a mio avviso a volte troppo squallida e ingiusta. Ma la realtà siamo noi!

Jesi, 11/06/2018                                                 Cinzia Perrone








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