UN INNOVATORE DELLA SCENA MUSICALE



Giovanni Battista Pergolesi fu forse il primo musicista che raggiunse in brevissimo tempo fama universale in ogni più sperduto angolo d’Europa e presso ogni ordine di pubblico.

Giovanni Battista Pergolesi nacque a Jesi il 4 gennaio 1710, terzogenito di una famiglia originaria di Pergola, piccolo borgo dello Stato della Chiesa, oggi in provincia di Pesaro, donde il suo antenato Francesco, un umile calzolaio, si era allontanato nel 1635 per cercare fortuna nella più ricca cittadina. Il cognome originario della famiglia, Draghi, sopravvisse sino al 1700 circa, quando l’aggettivo che soleva accompagnarlo per indicare il luogo di provenienza – «Pergolesi» o «della Pergola» – lo sostituì. Poco è dato sapere intorno all’ambiente familiare nel quale Giovanni Battista trascorse l’infanzia e la prima giovinezza. Con tutta probabilità la famiglia di Pergolesi dovette appartenere al ceto dell’umile e minuta borghesia impiegatizia provinciale: è infatti documentato che il padre del musicista, esplicava a Jesi le mansioni di sergente della pubblica milizia, di amministratore dei beni della Confraternita del Buon Gesù e soprattutto quello di geometra al servizio del municipio e della nobiltà locale. Questi impieghi, comunque, non bastavano al mantenimento della famiglia, tanto che alla morte di Francesco Andrea tutti i suoi beni furono confiscati dai creditori. Tuttavia la possibilità di frequentare l’aristocrazia del luogo poteva aprirgli prospettive ed offrirgli appoggi che dovevano dimostrarsi preziosi per l’avvenire del figlio.

Senza dubbio, la famiglia di Pergolesi doveva essere assai minata dalla tubercolosi. Dei quattro figli di Francesco Andrea, Giovanni Battista, che pure morì a soli ventisei anni, fu l’unico a sopravvivere: la sorella Rosa morì a due anni nel 1708; dei due fratelli, Bartolomeo morì a pochi giorni dalla nascita, nello stesso 1708, Antonio a due anni nel 1726. Gli stessi genitori si spensero a pochi anni di distanza l’uno dall’altro: la madre nel 1727, il padre nel 1732, dopo che la sua seconda moglie, tale Donna Eleonora da Cagli era morta di parto nel 1730, assieme con il figlio Pietro. Nello stesso Pergolesi dovettero manifestarsi sin dalla nascita i sintomi della malattia che doveva bruciargli in pochi anni l’esistenza, se si pensò di cresimarlo non già a sei anni, com’era consuetudine, ma a soli diciassette mesi: forse una forma di poliomelite gli provocò l’anchilosi della gamba sinistra (l’imperfezione fisica è crudelmente sottolineata da Pier Leoni Ghezzi in una caricatura eseguita subito dopo la morte del musicista); certo la tisi ne minò inesorabilmente la complessione fisica.

A Jesi Pergolesi iniziò lo studio della musica sotto la guida di maestri locali; i suoi progressi furono rapidi in entrambi i campi; fra le scarsissime notizie biografiche su Pergolesi, emerge non a caso quella relativa alla sua perizia di violinista. Grazie ai contatti che il lavoro di geometra permetteva al padre di allacciare, e probabilmente per la sua abilità di violinista, Giovanni Battista entrò ben presto in rapporto di familiarità con diversi nobili jesini: grazie ai buoni uffici, Pergolesi fu inviato a perfezionare le proprie cognizioni musicali in uno dei quattro Conservatori di musica napoletani, il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo.

Quando Pergolesi giunse a Napoli, attorno al 1723, la città si trovava da circa quindici anni sotto il dominio austriaco; la dominazione asburgica sarebbe continuata sino alla riconquista dell’Italia meridionale e della Sicilia, da parte dei Borbone di Spagna nel 1734, anni nel quale Carlo III si insediò a Napoli proclamandosi Re delle due Sicilie. Il periodo napoletano di Pergolesi si situa dunque in un momento di profonda trasformazione del quadro politico, sociale e culturale della società napoletana: un periodo di straordinario fervore in tutti i campi delle arti e del sapere. E in questo periodo Napoli divenne il principale centro di produzione e di esportazione, in Italia e in Europa, della musica italiana.

Centro della vita musicale ufficiale era il Teatro San Bartolomeo, direttamente legato alla corte e sede del genere artisticamente e socialmente più importante: l’opera seria. Sulle scene del Teatro San Bartolomeo avevano presentato le proprie opere dall’inizio del Settecento illustri musicisti napoletani, compositori di formazione veneziana e romana, e anche Handel vi era stato ospitato. Ma le loro creazioni non reggevano ormai il confronto con quelle della nuova generazione, ai quali doveva direttamente richiamarsi Pergolesi. È certo che un musicista chiamato a scrivere per il San Bartolomeo rappresentava nella stima del pubblico napoletano quanto di meglio e soprattutto di più attuale l’ambiente musicale italiano potesse offrire.

Se pensiamo che Pergolesi vi presentò il suo primo melodramma, la Salustia, nel 1732, a soli 22 anni, possiamo renderci conto di quale attenzione fosse circondato e di quali sostegni dovette godere sin dall’uscita dal Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo.

 Accanto alla massima istituzione teatrale napoletana, vi erano a Napoli diversi teatri minori, frequentati soprattutto, anche se non esclusivamente, dalla borghesia e dal popolo minuto. Quando Pergolesi si affacciò sulla scena musicale napoletana, il ceto aristocratico volentieri teneva verso la commedia musicale lo stesso atteggiamento di mecenatismo e di protezione che la corte offriva all’aulico dramma per musica rappresentato al S. Bartolomeo.

 Aristocratici e borghesi favorivano anche una serie di manifestazioni musicali private: per le accademie, i salotti, le feste, e i concerti e la vastissima schiera dei musicisti formatosi nei Conservatori napoletani confezionavano serenate, cantate, brani d’occasione, composizioni strumentali e vocali d’ogni genere.

Di strumenti e di voci risuonavano anche tutte le maggiori chiese napoletane. Questa pluralità di livelli della cultura musicale è una caratteristica tipica dell’ambiente musicale con cui il giovane Pergolesi venne a contatto in occasione del suo trasferimento a Napoli: nella città coesistevano e si intrecciavano senza alcuno sforzo dati della più profonda tradizione folclorica meridionale con espressioni più dotte e auliche coltivate dai musicisti professionisti in ambito sacro e profano. Lo stesso si riscontra anche nella tradizione teatrale, specie nella tradizione buffa, dove un sostrato legato alla festa popolare e alla recitazione dei saltimbanchi e dei comici dell’arte è ancora riconoscibilissimo nella tradizione dell’intermezzo e della commedia musicale in dialetto napoletano.

È probabile che Pergolesi per il Conservatorio abbia dovuto pagare una tantum una tassa di ammissione, ma che fosse esentato dal pagamento di una retta, in quanto i registri superstiti testimoniano della sua notevole attività a servizio dell’istituto, prima come cantore, poi sempre più spesso come violinista. Nel 1729 Pergolesi è chiamato «capoparanza», cioè direttore di un gruppo di sei, dodici o più scolari che andavano a suonare nei luoghi dove si chiedeva la loro opera.

Pergolesi rivela una concezione della religione intesa come estrema umanizzazione del sacro, come sottile scavo psicologico dell’esperienza religiosa: un atteggiamento che raffinato e come trasfigurato, sarà riconoscibile nelle estreme prove dei Salve Regina e dello Stabat Mater.

Dal punto di vista stilistico, queste composizioni sono un indice della stretta adeguazione di Pergolesi alle correnti più progressive della musica napoletana, una testimonianza del suo forte interesse verso il teatro musicale: i suoi modelli sono le partiture delle opere buffe e dei drammi seri di Vinci, Leo, Hasse, De Maio, che furoreggiavano sulle scene contemporanee. Questi impegnativi lavori segnavano la nascita di un nuovo grande compositore di teatro.

La favorevole impressione suscitata da queste prove giovanili (unitamente a forti protezioni negli ambienti ufficiali) procurarono a Pergolesi, nello stesso 1731, la commissione di un’opera seria dal maggiore Teatro di Napoli, il San Bartolomeo, la Salustia. L’opera andò in scena solo nella seconda metà del gennaio 1732, apparentemente con scarso successo, dal momento che fu ritirata all’inizio del mese successivo. Ma la fama di Pergolesi doveva essere già ben solida, se nel settembre dello stesso anno egli mise in scena, presso il Teatro dei Fiorentini la sua prima commedia musicale, Lo frate ‘nnamorato. Il successo dell’opera è testimoniato dalla sua ripresa (in una nuova versione, leggermente modificata) nel 1734 e, fatto del tutto eccezionale, nel 1748, dodici anni dopo la morte del musicista. Un documento contemporaneo ci testimonia come per tutto questo tempo le arie dell’opera fossero cantate per le strade di Napoli.

A Pergolesi fu anche affidato dalla municipalità di Napoli il compito di comporre una messa e un vespro in onore di S. Emidio, sotto la cui protezione si era posta la città dopo una serie di disastrosi terremoti. In soli due anni di attività Pergolesi si era cimentato nei principali generi compositivi: il teatro serio, il teatro comico e la musica religiosa. Nel novembre del 1732 Pergolesi entrò come organista soprannumerario presso la Cappella Reale.

La solida stima della quale il musicista ormai godeva, è altresì confermata dalla commissione, per la stagione successiva, di una nuova opera seria, Il prigionier superbo. L’opera andò in scena il 28 agosto 1733 ed ebbe un lusinghiero successo grazie soprattutto al suo intermezzo La serva padrona. Il culmine del consenso dell’ambiente sociale napoletano verso il musicista è rappresentato dalla sua nomina, nel febbraio 1734, a maestro di Cappella sostituto dalla «Fedelissima Città di Napoli».

Ma intanto grandi avvenimenti sconvolgevano il regno di Napoli: il 10 maggio 1734 Carlo di Borbone, dopo una rapidissima guerra, faceva il suo ingresso a Napoli e il 16 dello stesso mese vi veniva incoronato re; gli Austriaci furono costretti a indietreggiare in Italia meridionale e in Sicilia. Buona parte della nobiltà napoletana e in particolare quella più legata agli Asburgo, si ritirò nel campo neutro di Roma, attendendo l’esito conclusivo della guerra. Tra i nobili più restii ad accettare la nuova situazione politica, era il principe di Stigliano, al cui servizio lavorava il Pergolesi, insieme con altri titolari che avevano concesso la loro protezione al musicista, come il duca Caracciolo d’Avellino (che si rifugiò addirittura a Vienna) e il Duca Marzio IV Maddaloni Carafa. Quest’ultimo e sua moglie, Anna Colonna, invitarono Pergolesi a Roma nel maggio del 1734.

Pergolesi diresse nella Chiesa di S. Lorenzo in Lucina (sede della Cappella Nazionale Boema) la sua Messa in fa maggiore, (una rielaborazione della precedente Messa per S. Emidio) in una splendida e fastosa esecuzione per soli, 4 cori e 2 orchestre, all’interno di una funzione in onore di S. Johann Nepomuk (il protettore della Boemia). Si trattava in sostanza di un atto scopertamente politico, un’aperta dichiarazione di fedeltà all’impero austriaco da parte della famiglia Maddaloni. L’esecuzione romana della messa, mentre da un lato costituì un grande successo per Pergolesi e la sua prima affermazione artistica fuori dei confini napoletani, rappresentò dall’altro una fatale incrinatura dei suoi rapporti con il nuovo governo borbonico. I suoi protettori, il duca di Maddaloni (che aveva preso il musicista al proprio servizio) e il principe di Stigliano furono eletti ben presto gentiluomini di camera di Carlo III. Certo era facile per questi grandi nobili napoletani trarsi d’impaccio. Ma nel clima di sospetti e di vendette che seguì al mutamento di regime, non si perdonò al musicista di aver prestato la sua opera per un’operazione dal chiaro sapore sovversivo. Il 25 ottobre 1734 un’opera seria di Pergolesi fu rappresentata per l’ultima volta nel teatro «ufficiale» di Napoli, il San Bartolomeo: fu l’Adriano in Siria al quale venne abbinato l’intermezzo Livietta e Tracollo. L’opera non ebbe grande successo; per la stagione successiva, su suggerimento della corte, al Pergolesi fu preferito un altro compositore di origine spagnola.

Pergolesi si rivolse pertanto all’ambiente teatrale di Roma; ai primi di gennaio del 1735 venne messa in scena al Teatro Tordinona la sua ultima opera seria, l’Olimpiade.

Al ritorno a Napoli, la salute di Pergolesi deve avere subito un improvviso peggioramento ed è probabile che già nei mesi estivi del 1735 sia stato inviato dal Duca di Maddaloni a Pozzuoli per trovare sollievo dalla tubercolosi che ne andava minando il fisico. Ciò nondimeno egli proseguiva la sua attività compositiva. Nell’autunno del 1735 fu rappresentata al Teatro dei Fiorentini una sua nuova commedia musicale, il Flaminio. Il lavoro, a giudicare dalle numerose riprese, anche fuori Napoli, dovette riscuotere grande successo. Sugli ultimi mesi di vita di Pergolesi non si hanno notizie certe; con ogni probabilità fu ospitato a Pozzuoli nel Convento dei Cappuccini, un istituto religioso posto sotto la protezione della famiglia Maddaloni. Qui attese probabilmente alla composizione delle quattro cantate da camera date alle stampe immediatamente dopo la sua morte e – secondo quanto vuole la tradizione – della Salve Regina in do minore e dello Stabat Mater. Pergolesi avrebbe terminato la composizione dello Stabat nei suoi ultimi giorni di vita. Pergolesi si spense il 17 marzo 1736 di tubercolosi, e fu sepolto nella fossa comune della Cattedrale di Pozzuoli.

Alla metà del Settecento Pergolesi era già un mito: un mito che crebbe degenerando presto in leggenda, perché la nuova enfasi posta sul genio e sulla personalità dell’artista creatore si scontrava con una mancanza pressoché assoluta di documenti e di testimonianze dirette.

Solo in tempi recenti un imponente lavoro di ricerca, svolto in sede internazionale, ha recuperato la reale dimensione di Pergolesi: e la sua immagine autentica si è rivelata assai più affascinante e profonda di quella, consegnataci dalla tradizione. Le sue musiche non testimoniano solo una personalità creativa estremamente raffinata e complessa, ma ci restituiscono un’epoca e una società osservata e interpretata da tutti i punti di vista: la gestualità plebea ma anche la tenera sentimentalità borghese della commedia musicale; lo sfarzo e l’aristocratica malinconia del dramma; la scatenata vitalità e la sottile schermaglia psicologica dei personaggi degli intermezzi; la solennità e l’imponenza delle grandi composizioni sacre; l’intimismo patetico delle musiche religiose da camera.

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