Tutti
certamente ricorderanno, almeno il titolo, di uno dei più significativi film
del mitico Totò, ma forse pochi sanno, che questo titolo come tutto il film
rappresenta una vendetta dell'ecclettico attore. Sì, perché Antonio De Curtis,
uomo estremamente intelligente e sagace, non era nuovo a questo genere di
rappresaglia, che metteva a punto per togliersi, come si dice, qualche
sassolino dalla scarpa. Infatti la mitica battuta che usò per schernire qualcuno, “ma
che sei di Bitonto?”, era il suo modo di contraccambiare uno sgarro fattogli
proprio nel teatro di quella città.
Ritornando
al caporale, la sua avversione nacque durante il suo servizio militare, dove
ebbe la sventura di stare sotto il comando di un odiosissimo caporale, dal
quale subì continui soprusi e angherie. Il celebre motto del film, starebbe
proprio a significare la differenza che intercorre tra i piccoli individui
attaccati alle forme e alle procedure e chi invece usa l’elasticità mentale e
la capacità di comprendere. In breve la trama del film: Totò si trova in
manicomio e allo psichiatra espone la sua teoria sulla suddivisione
dell'umanità in due categorie: gli "uomini" sfruttati e prevaricati e
i "caporali “sfruttatori e prevaricatori, e gli narra episodi della sua
vita perseguitata dai caporali. Il medico convinto del buon ragionare di Totò
lo lascia libero, ma questi all'uscita del manicomio rischia di essere
investito da un'auto guidata da un "caporale" e sulla quale sale
Sonia la donna da lui amata un tempo.
Nel
film si ripercorrono 15 anni di storia italiana per dimostrare che i deboli
saranno sempre sopraffatti dai cattivi ovvero dai caporali. Totò canta due canzoni,
" Core analfabeta " di cui è autore e " E llevate 'a cammesella
" una vecchia composizione del teatro di varietà.
Forse
il nostro caporale era parecchio arrabbiato per via della sorte avversa che gli
aveva riservato il destino. Sì, perché questo vocabolo è stato vittima nella
storia di un lento declino che ne ha ribaltato l’importanza. Forse da qui nasce
il desiderio di riscatto, che molto spesso porta a chi si fregia di questi
gradi, a esercitare sui propri sottoposti, abusi e prevaricazioni, come capitò
al nostro Totò.
Vengo
subito al dunque. Oggi il caporale rappresenta il primo modesto grado della
nostra gerarchia militare e deve contentarsi di galloni di cotone, mentre il
sergente, suo superiore, già si fregia del titolo di sottoufficiale e sfoggia
galloni dorati luccicanti come quelli degli ufficiali. Non occorre essere
esperti in lingua, per sentire subito, così a orecchio, che caporale risale
alla parola capo, appellativo indiscusso di chi comanda, e può quindi vantare
una stretta cuginanza col capitano. In origine, anzi, il capitano era soggetto
al caporale, appellativo generico di chi esercitava un comando; indicava perciò
non solo il capo supremo di un esercito, ma anche il primo cittadino di un
comune medievale, il capo di una fazione, di un partito, un pezzo grosso
insomma. Caporali del popolo a Firenze erano quei cittadini che il popolo
eleggeva ogni anno a tutela dei propri diritti contro l’aristocrazia; infatti
lo storico del Trecento Giovanni Villani, nella sua “Cronaca”, ci parla delli maggiori e più possenti caporali dell’annata,
e ci fa anche sapere che i caporali
comandavano su quarantamila sergenti. Davvero una gerarchia in rivoluzione!
Del resto, non dimentichiamo che Napoleone si pregiò del titolo di “caporale di
Francia”, e non soltanto Napoleone.
Il
sergente invece, di origine piuttosto oscura, deriverebbe da una semplice
variante di servente, participio presente del verbo servire, influenzato dall’antico
francese sergent, colui che serve, un servitore. Nelle antiche vite dei santi,
si parla dei sergenti di Gesù Cristo, cioè dei servi del Signore. Nell’età
cavalleresca, ad esempio, il sergente era il valletto che seguiva il padrone
ovunque andasse, e sempre a piedi, mai a cavallo. Ma proprio a questo punto
entrò in gioco la fortuna: mentre il caporale, scivolon scivoloni, da generale
a capo di un esercito si trovò soldato a capo di una squadretta di soldati, lo
scaltro sergente si mise al servizio di un ufficiale, e come servo di costui,
si scoprì un giorno padrone del caporale.
Due
sono le conclusioni che possiamo trarre da questa storia; primo, che i ruffiani
scalzano spesso gli altri, secondo, che la vita è una ruota dove chi viene
messo sotto, vuole mettere a sua volta sotto qualcun altro. Attenti, queste mie
deduzioni, non vogliono dire affatto che io avalli questa situazione, anzi.
Non
ci resta che ancorarci alla filosofia di Totò, e stare attenti a riconoscere
tutti i potenziali caporali e sergenti.
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