“Pecunia
non olet”, ovvero “il denaro non ha odore”: quando l’imperatore romano
Vespasiano pronunciò questa famosa frase – almeno secondo il racconto
dello storico Svetonio – probabilmente non pensava che nei secoli a
venire molte persone l’avrebbero fatta propria, per giustificare affari
non troppo “puliti”.
E certamente non immaginava che i bagni
pubblici, chiamati comunemente “vespasiani” dal popolino romano,
avrebbero mantenuto quel nome ancora duemila anni dopo. Gli abitanti di
Roma, mordaci allora come oggi, avevano “intitolato” le latrine
pubbliche all’imperatore Vespasiano perché fu il primo a inventarsi una
tassa sull’urina, la centesima venalium.
Tacito e Svetonio insistono
molto sulla grande avarizia di questo imperatore arrivato a governare,
tra il 69 e il 79 d.C., il più celebre impero della storia antica, in
quel periodo di disordine civile e militare seguito alla morte di
Nerone: quello tra il giugno del 68 e il dicembre del 69 d.C. fu un
periodo decisamente difficile per Roma, “l’anno dei quattro imperatori”.
Dopo le quasi contemporanee pretese al trono di Galba, Otone e
Vitellio, Vespasiano fu acclamato imperatore dalle sue legioni, mentre
stava combattendo in Giudea. Una straordinaria “elezione”, ratificata
dal Senato, che segnò la fine della dinastia Giulio-Claudia, iniziata
con Ottaviano Augusto. Straordinaria anche perché Vespasiano non
discendeva da una delle famiglie nobili di Roma, era anzi un
“campagnolo” nato in Sabina (nell’odierna Cittareale, in provincia di
Rieti) e allevato dall’amatissima nonna paterna in una colonia latina
sul litorale toscano (oggi Ansedonia). Anche da imperatore il suo
rifugio era quello: la casa della nonna, mantenuta invariata come ai
tempi della sua infanzia.
Era avaro per necessità questo nuovo
imperatore, viste le casse dello Stato disastrate e l’impero sull’orlo
della bancarotta: “erano necessari quaranta miliardi di sesterzi perché
lo Stato potesse reggersi” (Svetonio). Per riportare la situazione della
finanza pubblica (e non personale, è bene ricordare) alla normalità,
Vespasiano aumentò i tributi dovuti dalle provincie, e si inventò nuove
tasse.
La più originale, disdicevole secondo il parere del figlio
Tito, fu quella che impose sulla raccolta dell’urina (per la verità
l’aveva applicata anche Nerone, ma per un breve periodo).
Eh sì,
perché l’urina aveva molteplici usi, ed era quindi un “prodotto” che
alcune categorie di persone volevano comprare: tra tutti c’erano i
fullones, ovvero coloro che lavavano i panni. Questo perché l’urina,
trasformandosi in ammoniaca, è un eccellente detergente che rimuove il
grasso e sbianca i tessuti, lana compresa.
La pipì veniva usata
anche dai conciatori, che mettevano le pelli animali a mollo nell’urina
per rimuovere i peli più facilmente, ma anche da tessitori e tintori.
C’era poi anche un uso che oggi farebbe storcere il naso: l’urina
veniva usata nella composizione di dentifrici e collutori… sempre per il
suo potere sbiancante.
L’urina era quindi una merce preziosa, che
veniva raccolta in tutti i bagni pubblici e poi probabilmente versata in
grandi vasche.
La pipì garantiva quindi un consistente introito
fiscale, che effettivamente aiutò molto Vespasiano a rimpinguare le
casse dello Stato, che alla sua morte erano tornate in attivo. La tassa
non era però di gradimento del figlio maggiore Tito, che poi diventerà
imperatore.
Quando Tito fece le sue rimostranze all’imperatore per
quel tributo che lo disgustava, lanciando alcune monete in una latrina,
Vespasiano non si scompose, anzi: raccolse il denaro e lo fece annusare
al figlio, chiedendogli se puzzava. Tito non potè che rispondere
negativamente, dando al padre l’occasione per pronunciare la famosa
frase."Pecunia non olet".
Con quelle parole Vespasiano voleva far
intendere al figlio che, se anche il prodotto tassato – l’urina –
puzzava, la ricchezza prodotta a favore dello Stato non aveva alcun
odore.
L’imperatore Vespasiano quindi è più conosciuto per la sua
tassa sulla pipì e per quella frase così sfruttata in seguito con
valenze ben più negative, anziché che per quel grandioso monumento –
ancora oggi simbolo di Roma in tutto il mondo – che fece costruire
durante il suo regno: il Colosseo.
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