Denise era una donna sulla quarantina. Fragile, ma a suo modo anche molto forte. Capelli ricci che lasciava andare come volevano; almeno loro, pensava, avrebbero dovuto vivere nella totale libertà e privi di costrizioni, che in alcuni casi la società ci impone. Occhi scuri e grandi, sempre attenti a tutto e pronti a scrutare il più insignificante particolare. Labbra carnose e serrate, avare di sorrisi; tutt’al più potevano morbidamente inarcarsi verso l’alto, a volte in modo palesemente forzato. Curata, ma non troppo, almeno non quanto la società dell’apparenza richiede. Lei aveva sempre preferito la sostanza alla forma, sin da ragazzina. Non aveva mai creduto a quei troppi fronzoli disseminati nella nostra quotidianità, complice forse il mascherato cinismo paterno che l’aveva accompagnata durante la sua infanzia. Se ti fanno un complimento, diceva suo padre, non credergli: nel novanta per cento dei casi è falso e ti stanno solo adulando per essere gentili e ruffiani. Questo non è proprio l’insegnamento giusto per infondere fiducia ad una bambina. Ora Denise ne pagava le conseguenze, vista la sua estrema indecisione accompagnata da una scarsa autostima; lei aveva imparato che la gente, se può, li evita i complimenti, per quella sorta di indifferenza o, nel peggiore dei casi, di invidia verso il prossimo. Questa era Denise, un cuore buono ma estremamente disilluso. Aveva alle spalle un vissuto tutt’altro che ordinario. Partendo dalla sua infanzia, passata tra i litigi domestici che i genitori ogni giorno mettevano in scena e culminata in una separazione, che in quell’ottica maschilista, retrograda e bigotta in cui era cresciuta, veniva vissuta, oltre che come un fallimento, anche come una vergogna. Del resto, i suoi genitori, in particolare suo padre, furono men che mai civili ed equilibrati nel gestire la cosa: produssero talmente di quegli strascichi, che la guerra, possiamo dire, continuò oltre le mura domestiche, a spese dei figli naturalmente e, in particolar modo, di Denise, che era la più piccola. Aveva un fratello, più grande di otto anni, e due sorelle gemelle di dieci anni più grandi di lei. Nei momenti più cupi di quegli anni, si chiedeva perché i suoi non si fossero accontentati di tre figli, decidendo di metterne al mondo un quarto, lei appunto, quando il matrimonio già si dirigeva verso lo sfascio. La risposta forse andava ricercata nel bisogno un po’ egoistico di sua madre, trascurata e maltrattata, di avere un nuovo amore, un nuovo centro di affetti su cui riversare tutta sé stessa e lenire le sue frustrazioni: una nascita terapeutica. Queste considerazioni non facevano altro che deprimerla, in un’età in cui la depressione dovrebbe rimanere parola sconosciuta. Andando avanti, le cose non proseguirono meglio: un fratello in carcere, un padre fantasma e un patrigno dispotico. In tutti questi frangenti, aveva assaporato la crudeltà che possono sprigionare nella gente le sventure altrui. Ad esempio, quando in terza media fu accerchiata e derisa dai compagni, rea di avere un fratello in carcere; fu allora, che oltre ad iniziare a coltivare una certa sfiducia nella gente, cominciò a vergognarsi della sua famiglia. Non si poteva biasimare tale reazione in un’adolescente di tredici anni. Così il suo rapporto col prossimo fu fatalmente compromesso; la sua indole buona e sensibile, tuttavia, a volte prendeva il sopravvento, inciampando in una ennesima delusione. La sfiducia nel genere umano tout court e la voglia di relazionarsi con le persone, per poter esercitare la sua socialità mista a tanta timidezza e insicurezza, la portarono a sviluppare una mirabile propensione alla riflessione più arguta. Era diventata col tempo, estremamente riflessiva nei confronti degli gli altri, anche troppo. Quando poi, la sua analisi non portava a risultati o questi ultimi erano discordanti e confusi, alzava un muro, come lo alzava verso chi aveva decretato “non degno” di entrare a far parte dei suoi possibili interlocutori. Questo atteggiamento già al liceo, le valse vari epiteti; i più attenti e intelligenti fra i suoi compagni la chiamavano la selettiva, forse a giusta ragione; i più superficiali e stupidi, spaziavano dall’asociale alla scorbutica. Come si può capire neanche gli anni delle scuole superiori furono rose e fiori per Denise. In un’età in cui l’amicizia è fatta da gruppetti e da super-comitive, lei era già a un grado superiore; quello dell’amicizia fatta di introspezione e empatia, quella delle affinità elettive, di complicità e reciproca stima. Ma in seguito imparò, non solo che lei a quel grado ci era arrivata troppo presto, ma che la maggior parte delle persone non ci arriva per niente, restando intrappolate in quello precedente, affettivamente immaturi. Che sia anche quella una sorta di protezione, aveva pensato? Gli anni passavano, le delusioni aumentavano, ma sempre con meno coinvolgimento e più distacco, un po’ come se le avesse sempre messe in conto. Oltre al muro, da donna adulta e madre, ora aveva una corazza, che però le pesava non poco, ma che non poteva fare a meno di indossare. Adesso, avrebbe dovuto proteggere anche sua figlia dal resto del mondo. Ma Denise non era una stupida. Non voleva assolutamente infondere alla sua bambina quel senso di inadeguatezza e di sfiducia nel prossimo, che le era stato trasmesso sin da bambina. C’era tempo per imparare dalle delusioni che inevitabilmente, e forse utilmente, la vita ci riserva. Nella sua crescita, sua figlia andava stimolata e incoraggiata, come ogni bambino, ad avere fiducia in sé stessa e negli altri. Ma è dura insegnare cose in cui non si crede poi tanto. Come se ad un ateo venisse affidato un corso di catechesi cattolica. Ma Denise sapeva che doveva fare uno sforzo, magari avrebbe fatto bene anche a lei; non sarebbe stata una brutta cosa, se anche lei stessa, avesse potuto recuperare stima verso sé stessa e verso tutta l’altra gente. Imparò insieme a sua figlia a guardare le belle persone, anziché quelle brutte; ed anche che da quelle brutte ci si poteva aspettare inavvertitamente magari qualcosa di bello. Il motto in casa era diventato: le persone
possono stupirti! Bisognava sempre pensare in positivo, almeno fino a un ragionevole dubbio. Forse quella era la maniera giusta per crescere serenamente sua figlia, ma anche per ammorbidire la sua scorza, che proprio non le si addiceva. Infatti, quei pochi eletti che riuscivano a penetrare nel suo mondo intimo e nascosto, rimanevano stupiti di quanto fosse generosa e disponibile quella donna. Insomma, lei non riusciva a venir fuori per quella che era in realtà, o meglio, faceva in modo che ciò non avvenisse, nascondendosi agli sguardi della gente che ella riteneva meno profonda. Gente, che sicuramente l’avrebbe delusa in modo cocente, se avesse giocato a carte scoperte e senza protezioni. Questo atteggiamento non lo avrebbe assolutamente trasmesso a sua figlia, anzi attraverso i suoi occhi avrebbe riacquistato fiducia nel mondo. Il suo compito ogni giorno era quello di evidenziare le cose belle, di minimizzare quelle brutte, mettendo in risalto ogni gesto buono e gentile del compagnuccio di turno e sorvolando su qualsivoglia scortesia o dispetto ricevuto. Spesso, quando faceva ciò, tornava con la memoria ai tempi passati, cercando di fare lo stesso esercizio che aveva imparato da madre, per poter ripescare nel suo passato, anche per lei gesti carini e amichevoli da poter tenere con sé come promemoria avverso a quella sua sorta di misantropia. Un episodio Denise ricordava sempre con amore e gratitudine; un amore che avrebbe sconfitto presto il suo malessere interiore, il suo antico dissidio tra amare gli altri o tenersene a debita distanza. Quando aveva tredici anni attraversò un periodo molto difficile, in concomitanza a quello nel quale suo fratello si trovava in carcere. Subiva la derisione dei compagni di classe più maligni, suo padre era scomparso dalla sua vita divorziando anche da lei, e sua madre, l’unica che le era rimasta, che era stata da sempre il suo unico approdo durante i mari in tempesta, cadde in un’angoscia totale e uno stato di profonda apatia, dovuti alle vicissitudini del figlio. Tutto ebbe inizio durante un autunno e va da sé, che il Natale seguente, sarebbe stato tutt’altro che gioioso. Ma come si può far rinunciare a una ragazzina a festeggiare il Natale? Già stava pagando abbastanza per colpe non sue: vedere la malinconia e la tristezza negli occhi di una madre, non era forse abbastanza doloroso per un’adolescente? Non poteva Denise a quell’epoca comprendere le dinamiche degli adulti, avrebbe dovuto solo vivere la sua spensierata età. Ma la vita non va sempre come dovrebbe andare, anzi quasi mai a dire la verità. Nella sua casa, insomma, il clima lieto delle feste natalizie fu bandito. Si era sfogata di quel malcontento con qualche compagna di classe, fra quelle che frequentava anche in parrocchia, dicendo che non un festone, non un addobbo avrebbe adornato le mura del suo appartamento. A dicembre inoltrato, niente albero di Natale; lo decorava tutti gli anni con sua madre, ma ora da sola non ne vedeva il senso. Una sera senza preavviso bussarono alla porta e, con estrema meraviglia, vide che erano quelle stesse compagne con cui si era confidata. -Cosa ci fate qua? -, chiese loro senza indugio. Queste entrarono in casa, una casa dal lungo corridoio e dalle mura fredde, giungendo insieme a Denise nella sua camera; la guardarono fissa dicendo: – Dove avete l’occorrente? Sbrighiamoci, abbiamo un albero da fare! – È inutile dire che Denise fu felicissima di quel gesto così gentile e disinteressato e fu molto grata a quelle due ragazze che per mezza giornata le avevano fatto dimenticare i problemi della sua famiglia e assaporare il gusto della gioia del Natale, dell’amicizia e della condivisione. Quel ricordo, che teneva ben stretto al cuore, sarebbe stato l’ispiratore e il motore del cambiamento che, da donna e madre, stava intraprendendo insieme con la sua adorata creatura.
Cinzia Perrone
Racconto tratto dalla mia raccolta "Annotazioni a margine"


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