Stamane
rispolverando nella mia libreria un vecchio libro, che se non erro, mi fu
regalato dalla mia professoressa di italiano delle scuole medie, vorrei
specificare di origine pugliese, ho riscoperto diversi componimenti in
vernacolo di alcuni poeti meridionali, e la potenza di quei versi per me vale
più di tanti libri e trattati di storia. Da qui la considerazione che la
poesia, specie quella vernacolare, ossia della lingua del cuore e della terra,
può tradursi in un ottimo specchio della condizione umana nel proprio contesto,
forte di quell’impeto che solo la poesia possiede. Il libro in questione è un
volume che tratta della questione meridionale e lo fa raccogliendo le
testimonianze e le riflessioni di scrittori, politici e filosofi dell’epoca. Vi
sono frammenti di famosi romanzi, discorsi, inchieste e tanto altro ancora, per
cercare di mettere ordine in un argomento che da anni è sulla bocca di tutti
senza troppi risultati.
Molti
componimenti sono talmente infuocati e vivi, da catturare il lettore sin dal
primo verso, ed è il caso della lirica che voglio proporvi.
La
poesia, intitolata “Lingua e dialettu”, del poeta siciliano Ignazio Buttitta,
mette in risalto le condizioni di miseria e di rabbia degli strati più poveri
del Sud e in particolare della Sicilia, ma pur sempre attaccati alle proprie
radici indistruttibili da cui può nascere fiera una nuova volontà di riscatto.
Ma il potere precostituito, dopo aver preso tutto, mira a distruggere anche
quelle.
Lingua e dialettu
Un
populu
mittitilu
a catina
spughiatilu
attuppatici
a vucca
è
ancora libiru.
Livatici
u travagghiu
u
passaportu
a
tavula unnu mancia
u
lettu unnu dormi,
è
ancora riccu.
Un
populu
diventa
poviru e servu
quannu
ci arrubbanu a lingua
addutata
di patri:
è
persu pi sempri.
Diventa
poviru e servu
quannu
i paroli non figghianu paroli
e
si mancianu tra d’iddi.
Mi
nn’addugnu ora,
mentri
accordu la chitarra du dialettu
ca
perdi na corda lu jornu.
Mentre
arripezzu
a
tila camuluta
ca
tissiru i nostri avi
cu
lana di pecuri siciliani.
E
sugnu poviru:
haiu
i dinari
non
li pozzu spènniri;
i
giuelli
e
non li pozzu rigalari;
u
cantu
nta
gaggia
cu
l’ali tagghiati.
Un
poviru
c’addatta
nte minni strippi
da
matri putativa,
chi
u chiama figghiu
pi
nciuria.
Nuàtri
l’avevamu a matri,
nni
l’arrubbaru;
aveva
i minni a funtana di latti
e
ci vìppiru tutti,
ora
ci sputanu.
Nni
ristò a vuci d’idda,
a
cadenza,
a
nota vascia
du
sonu e du lamentu:
chissi
non nni ponnu rubari.
Non
nni ponnu rubari,
ma
ristamu poviri
e
orfani u stissu.
Un
popolo/ mettetelo in catene/spogliatelo/tappategli la bocca, / è ancora libero./
Levategli
il lavoro/ il passaporto/ la tavola dove mangia/il letto dove dorme, /è ancora
ricco. / Un popolo/ diventa povero e servo/ quando gli rubano la lingua/ ricevuta
dai padri:/ è perso per sempre. /Diventa povero e servo/quando le parole non
figliano parole/e si mangiano tra di loro. /Me ne accorgo ora, /mentre accordo
la chitarra del dialetto/che perde una corda al giorno. /Mentre rappezzo/la
tela tarmata/che tesserono i nostri avi/con lana di pecore siciliane. /E sono
povero: /ho i danari/e non li posso spendere; /i gioielli/e non li posso
regalare; /il canto/nella gabbia/ con le ali tagliate. /
Un
povero/che allatta dalle mammelle aride/della madre putativa, /che lo chiama figlio/
per
scherno. /Noialtri l’avevamo la madre, /ce la rubarono; /aveva le mammelle a
fontana di latte/e ci bevvero tutti, /ora ci sputano. /Ci restò la voce di lei,
/la cadenza, /
la
nota bassa/del suono e del lamento: /queste non ce le possono rubare. /Non ce
le possono rubare, /ma restiamo poveri/e orfani lo stesso.
Ignazio
Buttitta, è stato un poeta dialettale siciliano (Bagheria, Palermo, 1899 - ivi
1997); autodidatta, esercitò da giovane i più umili mestieri, per poi darsi al
commercio; avverso al fascismo (nel 1922 capeggiò una sommossa di popolo),
partecipò alla Resistenza. La sua poesia, d'ispirazione popolare e insieme
consapevolmente letteraria, è improntata ad un vigoroso impegno umano e
sociale; al centro del suo discorso sta la Sicilia delle classi subalterne,
ferita da secolare povertà, e quasi come un cantastorie celebra il lavoro e le
lotte del popolo siciliano.
La
poesia riportata, nello specifico, si sofferma sull’importanza e la
degradazione del dialetto; è una tra le più note di Ignazio Buttitta, ed è
insieme una dichiarazione di poetica e d'impotenza.
Il
poeta s'accorge che il processo d'omologazione culturale e linguistica che
uccide il dialetto, soprattutto nel suo lessico, è una forma di asservimento,
di distruzione dell'identità. La scelta, in apparenza conservatrice, di
difendere - finché si può - nella poesia e con la poesia la propria parlata
nativa, si presenta come resistenza a un potere anonimo, sempre opprimente.
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